La Vocazione all’Apostolato. Papa Francesco all’Udienza Generale di Mercoledì 15 marzo

Catechesi. La passione per l’evangelizzazione: lo zelo apostolico del credente. 7. Il Concilio Vaticano II. 2. Essere apostoli in una Chiesa apostolica

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Proseguiamo le catechesi sulla passione di evangelizzare: non solo su “evangelizzare” ma la passione di evangelizzare e, alla scuola del Concilio Vaticano II, cerchiamo di capire meglio che cosa significa essere “apostoli” oggi. La parola “apostolo” ci riporta alla mente il gruppo dei Dodici discepoli scelti da Gesù. A volte chiamiamo “apostolo” qualche santo, o più generalmente i Vescovi: sono apostoli, perché vanno in nome di Gesù. Ma siamo consapevoli che l’essere apostoli riguarda ogni cristiano? Siamo consapevoli che riguarda ognuno di noi? In effetti, siamo chiamati ad essere apostoli – cioè inviati – in una Chiesa che nel Credo professiamo come apostolica.

Dunque, cosa significa essere apostoli? Significa essere inviato per una missione. Esemplare e fondativo è l’avvenimento in cui Cristo Risorto manda i suoi apostoli nel mondo, trasmettendo loro il potere che Egli stesso ha ricevuto dal Padre e donando loro il suo Spirito. Leggiamo nel Vangelo di Giovanni: «Gesù disse loro di nuovo: “Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi”. Detto questo, soffiò e disse loro: “Ricevete lo Spirito Santo”» (20,21-22).

Un altro aspetto fondamentale dell’essere apostolo è la vocazione, cioè la chiamata. È stato così fin dall’inizio, quando il Signore Gesù «chiamò a sé quelli che voleva ed essi andarono da lui» (Mc 3,13). Li costituì come gruppo, attribuendo loro il titolo di “apostoli”, perché stessero con Lui e per inviarli in missione (cfr Mc 3,14; Mt 10,1-42).  San Paolo nelle sue lettere si presenta così: «Paolo, chiamato a essere apostolo», cioè inviato, (1 Cor 1,1) e ancora: «Paolo, servo di Gesù Cristo, apostolo inviato per chiamata, scelto per annunciare il vangelo di Dio» (Rm 1,1). E insiste sul fatto di essere «apostolo non da parte di uomini, né per mezzo di uomo, ma per mezzo di Gesù Cristo e di Dio Padre che lo ha risuscitato dai morti» (Gal 1,1); Dio lo ha chiamato fin dal seno di sua madre per annunciare il vangelo in mezzo alle genti (cfr Gal 1,15-16).

L’esperienza dei Dodici apostoli e la testimonianza di Paolo interpellano anche noi oggi. Ci invitano a verificare i nostri atteggiamenti, a verificare le nostre scelte, le nostre decisioni, sulla base di questi punti fermi: tutto dipende da una chiamata gratuita di Dio; Dio ci sceglie anche per servizi che a volte sembrano sovrastare le nostre capacità o non corrispondere alle nostre aspettative; alla chiamata ricevuta come dono gratuito bisogna rispondere gratuitamente.

Dice il Concilio: «La vocazione cristiana […] è per sua natura anche vocazione all’apostolato» (Decr. Apostolicam actuositatem [AA], 2). Si tratta di una chiamata che è comune, «come comune è la dignità dei membri per la loro rigenerazione in Cristo, comune la grazia di adozione filiale, comune la vocazione alla perfezione; non c’è che una sola salvezza, una sola speranza e una carità senza divisioni» (LG, 32).

È una chiamata che riguarda sia coloro che hanno ricevuto il sacramento dell’Ordine, sia le persone consacrate, sia ciascun fedele laico, uomo o donna, è una chiamata a tutti. Tu, il tesoro che hai ricevuto con la tua vocazione cristiana, sei costretto a darlo: è la dinamicità della vocazione, è la dinamicità della vita. È una chiamata che abilita a svolgere in modo attivo e creativo il proprio compito apostolico, in seno a una Chiesa in cui «c’è diversità di ministero ma unità di missione. Gli apostoli e i loro successori hanno avuto da Cristo l’ufficio di insegnare, reggere e santificare in suo nome e con la sua autorità. Ma anche i laici: tutti voi; la maggioranza di voi siete laici. Anche i laici, essendo partecipi dell’ufficio sacerdotale, profetico e regale di Cristo, all’interno della missione di tutto il popolo di Dio hanno il proprio compito nella Chiesa e nel mondo» (AA, 2).

In questo quadro, come il Concilio intende la collaborazione del laicato con la gerarchia? Come lo intende? Si tratta di un mero adattamento strategico alle nuove situazioni che vengono? Niente affatto, niente: c’è qualcosa di più, che supera le contingenze del momento e che mantiene un suo proprio valore anche per noi. La Chiesa è così, è apostolica.

Nel quadro dell’unità della missione, la diversità di carismi e di ministeri non deve dar luogo, all’interno del corpo ecclesiale, a categorie privilegiate: qui non c’è una promozione, e quando tu concepisci la vita cristiana come una promozione, che quello che è di sopra comanda gli altri perché è riuscito ad arrampicarsi, questo non è cristianesimo. Questo è paganesimo puro. La vocazione cristiana non è una promozione per andare in su, no! È un’altra cosa. E c’è una cosa grande perché, sebbene «alcuni per volontà di Cristo stesso siano costituiti in un posto forse più importante, dottori, dispensatori dei misteri e pastori per gli altri, tuttavia vige fra tutti una vera uguaglianza riguardo alla dignità e all’azione comune a tutti i fedeli nell’edificare il corpo di Cristo» (LG, 32). Chi ha più dignità, nella Chiesa: il vescovo, il sacerdote? No … tutti siamo cristiani al servizio degli altri. Chi è più importante, nella Chiesa: la suora o la persona comune, battezzata, il bambino, il vescovo …? Tutti sono uguali, siamo uguali e quando una delle parti si crede più importante degli altri e un po’ alza il naso, sbaglia. Quella non è la vocazione di Gesù. La vocazione che Gesù dà, a tutti – ma anche a coloro che sembrano essere in posti più alti – è il servizio, servire gli altri, umiliarti. Se tu trovi una persona che nella Chiesa ha una vocazione più alta e tu la vedi vanitosa, tu dirai: “Poveretto”; prega per lui perché non ha capito cosa è la vocazione di Dio. La vocazione di Dio è adorazione al Padre, amore alla comunità e servizio. Questo è essere apostoli, questa è la testimonianza degli apostoli.

La questione dell’uguaglianza in dignità ci chiede di ripensare tanti aspetti delle nostre relazioni, che sono decisive per l’evangelizzazione. Ad esempio, siamo consapevoli del fatto che con le nostre parole possiamo ledere la dignità delle persone, rovinando così le relazioni dentro la Chiesa? Mentre cerchiamo di dialogare con il mondo, sappiamo anche dialogare tra noi credenti? O nella parrocchia uno va contro l’altro, uno sparla dell’altro per arrampicarsi di più? Sappiamo ascoltare per comprendere le ragioni dell’altro, oppure ci imponiamo, magari anche con parole felpate? Ascoltare, umiliarsi, essere al servizio degli altri: questo è servire, questo è essere cristiano, questo è essere apostolo.

Cari fratelli e sorelle, non temiamo di porci queste domande. Fuggiamo dalla vanità, dalla vanità dei posti. Queste parole ci possono aiutare a verificare il modo in cui viviamo la nostra vocazione battesimale, come viviamo il nostro modo di essere apostoli in una Chiesa apostolica, che è al servizio degli altri.

Foto: Copyright © Vatican Media

Verso la Pasqua!

Verso la Pasqua!

di Maria Lo Presti

“La trasfigurazione” di Giuseppe Tuzzolino

 

Se uno ha visto la gloria di Mosè, e ha compreso che la Legge spirituale altro non è che la parola di Gesù, e la sapienza che è nei Profeti è nascosta nel mistero, costui ha visto Mosè ed Elia nella gloria, avendoli visti insieme a Gesù (Origene).

 

Ogni anno ci viene incontro il tempo della Quaresima: è un dono, un tempo speciale che ci orienta verso la Pasqua. Il cammino della Quaresima è sempre nuovo: bisogna predisporsi a coglierne e viverne la novità.

Come ogni anno, nella seconda domenica di Quaresima la trasfigurazione del Signore si pone nel cammino verso la Pasqua quale sosta e anticipazione che indica la direzione.

In questo anno (Anno A) la liturgia propone il testo di Matteo (cf. Mt 17,1-9) e ci troviamo avvolti da una nube luminosa (cf. Mt 17,5; Ez 1,4): è la nostra storia, che rimanda all’esodo del popolo guidato da una colonna di nube di giorno e da una colonna di fuoco per far luce nella notte (cf. Es 13,21; Sal 78,14; 105,39).

La stessa nube illuminava la notte (cf. Es 14,20); la gloria del Signore, infatti, si manifestava attraverso la nube (cf. Es 16,10; Ez 10,4): nella nube oscura era Dio (cf. Es 20,21; 1 Re 8,12 e 2 Cr 6,1). Quanto sembra contraddittorio si svela nella sua concretezza e bellezza: nella stessa oscurità risplende la luce, laddove Dio è presente. Poi la luce dirada le tenebre, splende nelle tenebre (cf. Gv 1,4-5), e ciò fa riferimento al Cristo che è luce che viene nel mondo, svela ogni cosa e illumina: è lui che risolleva anche dalle tenebre (cf. Is 49,8-9); a quanti stavano nelle tenebre una luce rifulse (cf. Is 9,1). Nel corso della Quaresima dell’Anno A si incontrano un cieco dalla nascita che viene illuminato, vede e crede in Gesù Figlio dell’Uomo (cf. Gv 9); e Lazzaro che viene tratto dalle tenebre della morte (cf. Gv 11,1-44): è ciò che ricordiamo, per noi, ancora una volta nella veglia di Pasqua. Siamo rinati a vita nuova (cf. Rm 6,4), e andiamo verso la Pasqua, sapendo che già viviamo da risorti ‘con Cristo’: questo ci indica non solo come essere, ma ci ricorda ‘chi siamo’.

All’inizio della Quaresima, nel Mercoledì delle Ceneri, è tracciato un percorso: per i figli del Padre, che vede nel segreto, vi è l’invito a crescere e a rinnovare le relazioni con Dio, con i fratelli, con se stessi e con le cose. Lungo il cammino si lascia ciò che è di intralcio, per procedere più speditamente, anche perché mentre è in cammino verso Gerusalemme, verso la sua Pasqua, Gesù annuncia la sua passione e la sua resurrezione (cf. Mt 16,21 e parr.) e chiede di seguirlo prendendo la croce (cf. Mt 16,24-26 e parr.). Gesù non viene compreso (cf. Mt 16,16,22 e parr.); in seguito i discepoli si rattristano per le sue parole (cf. Mt 17,22.23); Marco sottolinea che alla incomprensione si affianca anche la paura di chiedere spiegazioni a Gesù (cf. Mc 9,30-32): anche noi ci potremmo ritrovare spesso nella stessa condizione.

Nella Quaresima, il digiuno aiuta a valutare il rapporto con le cose, il mondo. Non si tratta solo del digiuno dal cibo, ma è l’uso di quanto si ha a disposizione che viene messo in discussione. Certamente le tante vicende drammatiche del tempo presente non possono lasciare indifferenti. Non si può continuare ad usare ed abusare dei beni disponibili per troppo pochi, rispetto alle moltitudini che Paolo VI indicò nella Populorum Progressio come ‘i popoli della fame’.

Il digiuno fa riflettere anche su quanti ‘sì’ si concedono a sé e quanti pochi agli altri. Il rapporto con se stessi ne riceve un beneficio: «non valutatevi più di quanto conviene, ma valutatevi in modo saggio e giusto, ciascuno secondo la misura di fede che Dio gli ha dato» (Rm 12,3).

Ed ecco che interviene l’elemosina che riporta ad un equilibrio: dei ‘no’ a sé per guardare agli altri. Si potranno donare dei beni, del tempo, dell’attenzione, della comprensione; le proprie capacità e competenze a disposizione di altri. Non c’è limite alle possibilità che si aprono quando, spostato l’asse di attenzione da sé, si apre lo sguardo a quanto circonda.

Infine, non perché ultima, ma perché finirebbe per avere poco senso se non accompagnata dalla misericordia, ecco la preghiera. La Quaresima è un tempo speciale per vivere l’intimità con il Signore, tanto da dirgli, gridargli, sussurrargli: «Signore, è bello per noi essere qui!» (Mt 17,4). È il tempo dell’ascolto della sua Parola: Parola che nutre, corrobora e risana lungo il cammino (cf. Mt 4,3-4; Dt 8,2-3; Sap 16,10-12).

In Esodo si legge che durante la notte, nella nube vi era un fuoco visibile ad Israele (cf. Es 40,38); e in mezzo al fuoco, alla nube e all’oscurità il Signore disse le parole, le scrisse e le consegnò su due tavole (cf. Dt 5,22; Sir 45,5). Nelle diverse circostanze, si può sostare nella nube per accogliere la Parola. In Numeri 11,25 si legge che il Signore scese nella nube, parlò a Mosè e posò lo spirito sui settanta. Ci disponiamo ad entrare nella nube come Mosè, per ascoltare e ricevere ‘una parola’, anche una sola, luce per il cammino (cf. Sal 119,105).

Quindi, si torna alla quotidianità, e si ritrovano le parole ‘difficili’ di Gesù: «Gesù disse ai suoi discepoli: “Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà. Infatti quale vantaggio avrà un uomo se guadagnerà il mondo intero, ma perderà la propria vita? O che cosa un uomo potrà dare in cambio della propria vita?”» (Mt 16,24-26). È proprio arduo comprendere le sue parole.

Ma è proprio dopo queste parole ai discepoli che Gesù si presenta in tutto il suo splendore ai tre più cari, quelli che gli saranno vicini anche nel momento dell’angoscia (cf. Mt 26,36-46 e parr.). Se si è accanto a lui nel momento di gloria, lo si è nel momento del dolore e viceversa: «Se moriamo con lui, con lui anche vivremo; se perseveriamo, con lui anche regneremo» (2 Tm  2,11-12).

Il tempo della prova è duro mentre permane: propio allora bisogna tornare all’esperienza fatta, all’incontro col volto luminoso del Figlio. Sulla scorta  del percorso dell’Anno A si può tornare al ‘pozzo’ dell’incontro (cf. Gv 4,1-42), al giorno che ha determinato una svolta, al giorno in cui ci si è accostati al volto luminoso del Signore Gesù: «siamo stati testimoni oculari della sua grandezza. Egli infatti ricevette onore e gloria da Dio Padre, quando giunse a lui questa voce dalla maestosa gloria: “Questi è il Figlio mio, l’amato, nel quale ho posto il mio compiacimento”. Questa voce noi l’abbiamo udita discendere dal cielo mentre eravamo con lui sul santo monte. E abbiamo anche, solidissima, la parola dei profeti» (2 Pt 1,16-19). L’incontro che rimane nel cuore sia luce per tutto il resto del cammino, che a volte può sembrare solo tenebra.

Nella nube luminosa si gode dell’esperienza della presenza di Dio. Gesù e i discepoli, e tra questi siamo noi, dopo una così grande esperienza, proseguono il cammino verso il Calvario. Nel cuore di ciascuno si ripropone il ricordo forte di quel giorno in cui «il suo volto brillò come il sole» (Mt 17,2), e continua a illuminare la quotidianità anche quando può sembrare che prevalgano il buio e la notte.

Il tempo della Quaresima ci ricorda che siamo in cammino, e sappiamo che si tratta di un cammino che supera il tempo: la nostra patria è nei cieli (cf. Eb 13,12-14). Intanto, si alternano tempi, tempi differenti – la liturgia parla di ‘tempi forti’ -; non tutti i tempi sono uguali (Qo 3,1-8). Nel tempo della Quaresima sentiamo ripetere: Ecco ora il giorno della salvezza (cf. 2 Cor 6,2).

Il giorno della salvezza non è piccola cosa, non è un momento che sfugge, si estende al di là del tempo: è l’oggi’ di Luca, che ci piace ricordare nelle parole di Gesù al malfattore pentito (cf. Lc 23,43). ‘Oggi sarai con me’ è quello che vorremo vivere ogni giorno, nella varietà e susseguirsi di tempi e momenti.

Mentre si è in cammino, ed è un percorso che sembra tutto in salita, la luce che promana da Cristo capovolge ogni cosa e il passo si fa lieve: è bello stare qui, è bello stare con Te. E si prosegue senza stancarsi (cf. Is 40,31).

Vi è chi guarda alla monotonia dei giorni, invece ecco ancora una Quaresima, ancora una opportunità, ancora un giorno, perché si inauguri il tempo nuovo: «Non ricordate più le cose passate, non pensate più alle cose antiche! Ecco, io faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete? Aprirò anche nel deserto una strada, immetterò fiumi nella steppa. […] Il popolo che io ho plasmato per me celebrerà le mie lodi» (Is 43,18-19.21).

LA VOCAZIONE RELIGIOSA NEL PENSIERO DEL BEATO DON FRANCESCO MOTTOLA

INTERVENTO DI DON FRANCESCO SICARI, FRATELLO MAGGIORE OBLATI SACRO CUORE, AL CONVEGNO ORGANIZZATO DAL SERRA CLUB OPPIDO MAMERTINA-PALMI IL 27 NOVEMBRE 2022, IN OCCASIONE DELLA GIORNATA DELLA FONDAZIONE BEATO JUNIPERO SERRA, SUL TEMA VOCAZIONE, DONO DI DIO

LA VOCAZIONE RELIGIOSA NEL PENSIERO DI DON BEATO DON FRANCESCO MOTTOLA

Carissimi, buonasera e grazie per avermi invitato a questo convegno per commemorare don Vincenzo Tripodi, a 10 anni dalla sua scomparsa. Non potevo non accettare il vostro invito, anche perché mi avete chiesto di parlare a voi del Beato Francesco Mottola e della sua vocazione sacerdotale vissuta in modo autentico.  

Grazie al Serra Club per il prezioso servizio che svolge per promuovere la cultura vocazionale e per la preghiera per le vocazioni di speciale consacrazione.

Porto i saluti del Vescovo Attilio Nostro e di Mons. Luigi Renzo vescovo emerito di Mileto- Nicotera – Tropea.

Vorrei iniziare questa mia riflessione, sul tema che mi è stato assegnato, con una domanda: Cos’è vocazione?

Vocazione è secondo papa Francesco ‘realizzare il sogno di Dio’. Così il Pontefice afferma nel messaggio per la 59^ Giornata mondiale di preghiera per le vocazioni.

E parlando ad Assisi ai giovani riuniti, nel mese di novembre 2020, papa Francesco così afferma: “Non rinunciamo ai grandi sogni. Non accontentiamoci del dovuto perché il Signore non vuole che restringiamo gli orizzonti. Non siamo fatti per sognare le vacanze o il fine settimana, ma per realizzare i sogni di Dio in questo mondo. Egli ci ha reso capaci di sognare per abbracciare la bellezza della vita”. 

Realizzare i sogni che hanno il profumo di Dio è la strada che tutti siamo chiamati a percorrere, questa è la strada della santità. 

Con grande trepidazione, sono qui questa sera a parlare a voi dell’ultimo beato di questa nostra Chiesa Calabrese, Don Francesco Mottola, alla cui scuola di vita e di ideale ha attinto anche don Vincenzo Tripodi, che stasera voi ricordate nel decimo anniversario della sua morte.

Don Francesco Mottola è stato un giovane dai grandi orizzonti che ha saputo realizzare il grande sogno profumato dell’amore di Dio per questa porzione di terra che è stata la sua Calabria e in particolare la sua città di Tropea, dove è nato nel 1901 e dove ha concluso la sua esistenza pienamente donata a Dio e ai fratelli il 29 giugno 1969.

Il Beato Mottola ha realizzato questo sogno, perché ha saputo rispondere con entusiasmo e prontezza alla chiamata di Dio, nella scelta vocazionale del sacerdozio.

In una bellissima meditazione, tenuta alle Oblate del Sacro Cuore, riflette sulla dinamica della vocazione divina e si pone tre domande: chi chiama, come chiama e perché chiama.

Sottolinea che vocazione significa chiamata. E a chiamare è Gesù Maestro, Redentore e Santificatore. 

Maestro perché “Egli chiama con una parola di luce, con una illuminazione di anima, perché è voce del Verbo…”.

Redentore in quanto “chiama con una parola di sangue, perché Egli stesso tutto il suo sangue versò per coloro che chiama”.

Santificatore perché “ci chiama con una parola di fuoco: la parola del suo cuore divino. Egli solo sa, e ci redense e ci ama fino alla follia”.

E poi don Mottola si sofferma su questa voce di Dio che raggiunge il cuore dell’uomo per rivelare il suo progetto di amore. Scrive: “È a voce di 20 secoli or sono, la voce di ieri, di oggi e sempre. Sulle rive del lago una voce dolcissima e tremenda chiama. È dolcissima ed è tremenda, perché esige tutto da coloro che chiama alla verginità apostolica, “è una voce che dà scampo”.

È una voce che impone l’imposizione più impossibile: l’amore esclusivo è totalitario.

Don Mottola questo lo aveva ben compreso e su questo amore totalizzante per Gesù e per i fratelli ha saputo costruire e declinare la sua esistenza. Le ultime sue parole, sintesi di questa vita vissuta nella piena oblazione, sono state: Eccomi, eccomi tutto.

Al termine di questa bella meditazione che sottolinea altre e importanti dimensioni sulla realtà della vocazione, il Beato Mottola annota questo: “Sogno per la mia terra di Calabria e la sogno come la terra sperimentale del cristianesimo perfetto, e l’avremo quando qui in Calabria, ci sarà una vampa sacerdotale coronata da un alone bianco e ardente di vergini”.

Nel suo cuore si fa strada quella che poi diventerà concretamente la famiglia del Beato, gli oblati e le oblate del Sacro Cuore chiamate a realizzare la particolare vocazione di certosini e carmelitane della strada.

Questa intuizione vocazionale del Beato tropeano voleva affermare e sottolineare con forza che nella Chiesa non ci può essere azione senza contemplazione, essendo la contemplazione la sorgente autentica di ogni azione sacerdotale e di ogni anima consacrata: “Mi pare assurdo l’apostolato senza la vita interiore. Un corso d’acqua, quando si stacca dalla sorgente non feconda più, diviene palude”.

Questa amara ma vera constatazione penso che sia alla base di tante crisi, fallimenti, solitudini e angosce del prete e della vita consacrata in genere. Ma la mancanza di vita interiore credo che sia all’origine anche della crisi delle vocazioni di speciale consacrazione che oggi più che mai registriamo nelle nostre comunità e di una vita cristiana che sembra aver perso il suo smalto e la sua forza coinvolgente.

Ma dove questo sogno ha cominciato a prendere forma nel cuore e nella vita del giovane Francesco Mottola? 

Nel nostro Seminario Regionale San Pio X di Catanzaro, dove egli ha compiuto la sua formazione verso il Sacerdozio. Egli è diventato così il primo Beato di quel Seminario.

Del periodo della sua formazione, egli ne ha un ricordo grato e sereno.

Ed è meraviglioso quello che scrive sul Seminario e sui suoi compagni di quegli anni: “Dei  seminaristi si ha spesso l’idea più strana: si pensa a dei poveri giovani più o meno melensi, con il collo torto e la corona in mano”. 

“Ma bisognava vedere cosa fosse il Pio X in quei tempi. Un rogo di vampe! Giovani che rinunciavano fieramente alle sollecitazioni del mondo, perché nella morte dei sensi, si alimentasse un’idea divina, perché quest’idea divina splendesse, per il loro sacrificio nella loro terra. C’era tanta gioia in quel sacrificio e c’era tanta vita in quella gioia”.

Questa sottolineatura pone il delicato tema del discernimento vocazionale che nel seminario oggi è importante fare con estrema attenzione. 

“Stiamo formando dei ragazzi nei seminari per un mondo che non c’è e che sta cambiando. Questo non dipende dai formatori, ma dalla struttura”. Così don Fabio Rosini, direttore del Servizio per le vocazioni della diocesi di Roma alcuni mesi fa. Per fare fronte a questo cambiamento d’epoca, forse sarà necessario osare e alzare la temperatura culturale e spirituale della formazione umana e sacerdotale

Don Mottola fin da giovane seminarista era pervaso da idealità e ansie grandi: “Il passato e il futuro! Ecco il nostro motto, il nostro programma e la nostra idea. Noi non indaghiamo il passato per piagnucolarvi sopra, né per gonfiarci con inutili necrologie, a base di bolsa retorica. Non siamo gnomi né pigmei raspatori di tombe mefitiche, in cerca di supposti tesori; ma siamo uomini, nel senso più nobile della parola, siamo cristiani, siamo giovani, soprattutto giovani”. 

È un giovane carico di sentimenti esplosivi e pieno di entusiasmo: “L’entusiasmo è la poesia di ogni passione eroica. Noi come giovani, illumineremo di entusiasmo la nostra passione bruzia e sventoleremo la nostra bandiera”.

Quale bandiera? “La bandiera la chiederemo al passato, ai nostri santi, ai nostri eroi, ai pensatori nostri”. Quale santità? “Quella di Domenica, di Nilo, di Francesco. Ha l’azzurra serenità del nostro Tirreno, l’ondeggiante leggiadria dei colli nostri, il rosso acceso, non so se del sangue o dell’ardore dei martiri e dei santi nostri”.

Ed è in questo contesto che don Mottola vive il suo cammino verso il sacerdozio. Un sacerdozio vissuto in maniera radiosa di luce e di fiamma. 

Scriverà il vescovo Mons. Cribellati nel 1949: “Sono passati 25 anni ed io sono rimasto tranquillo e resto contento per averti imposto le mani”.

Nei suoi scritti, soprattutto i pensieri contenuti nel Diario dell’anima, trapela il desiderio di vivere il sacerdozio in modo pieno e autentico. “Il mio sacerdozio. Gesù, percuotimi, ma dammi un sacerdozio santo. Quell’ora sarà la più bella della mia vita: verrò a te con la corona di spine, ma col cuore ardente dal desiderio di amarti”.

Essere sacerdote di Cristo ed essere sacerdote Santo: questa è in sintesi la storia di don Mottola.

Sacerdozio e santità hanno per lui un legame inscindibile. E non una qualsiasi santità, ma una santità totale: fino alla pazzia, tutto, tutto, tutto, con l’accettazione di tutte le sofferenze che il Signore avrebbe voluto mandargli.

Ebbe sempre sotto gli occhi l’ideale di perfezione sacerdotale tracciato da p. Chevrier: “Il sacerdote è un uomo spogliato; è un uomo crocifisso; è un uomo mangiato”. E in un piccolo quadro, posto sul letto accanto al crocifisso e all’Immagine della Madonna questo programma sacerdotale viene esplicitato nei vari dettagli:

  1. la povertà del presepio: povero nell’abitazione, nel vestiario, nel cibo, nei beni, nel lavoro, nel servizio; umile di spirito, di cuore, riguardo a Dio, agli uomini e a se stesso; più si è povero e più ci si abbassa; più si glorifica Dio. 
  2. la crocifissione del Calvario: morire nel corpo, nello spirito, nella propria volontà, nella propria fama; morire alla famiglia, al mondo; immolarsi col silenzio, la preghiera, il lavoro, la penitenza, il patimento, la morte; più si è morto, più si ha la vita, più si dà la vita. 
  3. la carità del tabernacolo: dare il corpo, lo spirito, il tempo, i beni, la salute, la vita; offrire la vita per mezzo della fede, della dottrina, delle parole, delle preghiere, dei beni sacerdotali, degli esempi; bisogna diventare del buon pane per essere mangiati dagli altri.

A questi propositi, il Beato Mottola, corroborato dalla grazia attinta dall’amore all’eucarestia, al Sacro Cuore e alla Madonna, si mantenne fedele e la sua vita sacerdotale diventerà così autentica da diventare attrattiva. 

Questo a conferma che la vocazione diventa anche un’attrazione. Se il carisma e la vita di quelli che oggi ne sono i portatori e rappresentanti non è, per così dire, affascinante, vengono meno le condizioni per suscitare seguaci. Ciò era capitato già con Gesù. Gli apostoli sono rimasti legati a Lui da un’ammirazione non comune; avevano percepito la bontà che si sprigionava da Lui e perciò gli hanno domandato: «Dove abiti?» (Gv 1,38). Andando poi a stare con lui.

Tra quelli che seguirono don Mottola ci furono i giovani. Scriverà Mons. Girolamo Grillo: “Don Mottola era sempre circondato da un gruppo di giovani studenti, che aveva costituito in circolo di Azione Cattolica. Li veniva plasmando con la parola e lo spirito. Ci fu allora qualcuno che, vendendolo camminare la sera con quei giovani, disse che gli sembrava di vedere nostro Signore tra i suoi primi discepoli”. 

E don Carmine Cortese annota che “fu tra questo fiorire di anime giovanili che venne gettato il seme della San Vincenzo, che più tardi doveva sbocciare nelle case della carità”.

E gli incontri che egli aveva con i giovani studenti tropeani non erano sul piano dei soliti dibattiti culturali, ma riflettevano il suo cuore sacerdotale, la fiamma sempre splendente della carità di Cristo.

Ma certamente il momento più alto del suo servizio vocazionale furono gli anni di Rettore del Seminario Vescovile di Tropea dal 1929 al 1942.

Così lo ricorderà quel periodo Mons. Francesco Pugliese: “Rettore del Seminario, sapeva educare anche con la sola presenza. Il seminario era diventato centro di attrazione, d’irradiazione e di vita per molte anime”.

Nella rivista Parva Favila del 1934, don Mottola invita tutti a pregare, offrire e soffrire per il dono delle vocazioni. “Lo so, la vocazione è opera di Dio, ma noi non abbiamo il dovere di cooperare alle chiamate divine? Perciò preghiamo, offriamo il nostro piccolo obolo per le vocazioni povere, soffriamo perché il Signore mandi operai nella sua messe. Pregare, offrire, patire, è la trilogia che offro nella Pentecoste fiammeggiante alle anime migliori. Pregare, perché lo disse il Maestro, quando dall’angolo di Palestina, guardava con occhio triste, il mondo intero, mareggiante di messe matura, ma senza operai. Offrire perché non c’è carità migliore di quella, che va verso Cristo stesso, vivente nei suoi sacerdoti. Patire perché le grazie divine bisogna pagarle con il sangue. Quando tra qualche decennio la nostra regione sarà un giardino fiorito di anime e il sole brucerà più forte e il Cristo regnerà nei cuori, il merito sarà anche vostro. Noi intanto preghiamo incessantemente: Signore mandaci dei Santi, è tanto tempo che non ce ne mandi Signore!”. 

Questa preghiera sgorgata dal suo cuore è stata esaudita in maniera sorprendente: nel 2021 la Chiesa lo ha elevato agli onori degli altari e tra i Beati invocati ora c’è anche lui.

Mi piace concludere, con le parole del Cardinale Semeraro nell’omelia della Beatificazione:

    La beatificazione di don Mottola conforta il clero, perché si tratta di un sacerdote ed oggi tutti noi sentiamo vivo il bisogno di preti che diffondono non il loro (che alla fine potrebbe risultare nauseante), ma «il buon profumo di Cristo» (2Cor 2,15). Egli è pure il primo ex-alunno del Pontificio Seminario Regionale di Catanzaro «Pio X» ad essere elevato agli onori dell’altare. Sia modello per tutti i nostri seminaristi.

    La beatificazione di don Mottola conforta la vita consacrata: egli fu fondatore degli Oblati, che chiamava i certosini della strada, e delle Oblate, che amava indicare come le carmelitane della strada. Tutti egli li mise alla ricerca e alla accoglienza di chi è emarginato; di quelli che, per usare il linguaggio di Papa Francesco, sono gli «scarti dell’umanità». Essere «scartati» è ben più doloroso dell’essere povero!

    Questa beatificazione conforta la stessa Chiesa, che è capace di portare la gioia del vangelo soltanto se è «madre di santi». 

 

Delianuova, 27/11/2022

don Francesco Sicari OSC

fratello maggiore dei sacerdoti oblati del Sacro Cuore

La Chiesa e l’arte

La Chiesa e l’arte.

di don Paolo Prunotto, parroco di Quattordio (AL) – Diocesi di Asti Piemonte.

Siamo tutti ben consapevoli come nell’approccio personale ad un’opera d’arte, qualunque essa sia, non ci si debba fermare alla sola e vaga impressione che essa sa suscitare nei primi istanti di visione o di ascolto. All’inizio, infatti, prevale in ciascuno di noi il giudizio prettamente estetico e, comunque, sempre soggettivo: mi piace… non mi piace; è bella… è brutta. Considerazioni inevitabilmente superficiali, non meditate, frutto della dimensione puramente “sentimentale” del momento, senza l’indispensabile e ponderata “razionalità”. Sappiamo, altresì, che un avvicinamento più riflessivo e documentato all’arte rechi con sé innumerevoli sfaccettature, di solito sempre positive e arricchenti. Un’opera può essere sviscerata dal punto di vista storico (per ciò che rappresenta), dal punto di vista filosofico (esempio Rembrandt), antropologico, pedagogico, metafisico (esempio i dipinti di Hieronymus Bosch o di René Magritte), paesaggistico (i pittori “vedutisti” e “arcadici” tra XVIII e XIX secolo), per la storia del costume, per l’architettura, la geometria… e, ovviamente, la teologia e la fede. Ed è su quest’ultimo aspetto che desideriamo concentrare queste semplici e, certamente, non esaustive considerazioni.

Una piccola digressione, scevra da vena polemica. Chiunque tra noi abbia la fortuna di varcare la soglia di un museo, di visitare una città, di ascoltare musica (generalmente classica), non potrà non notare come la maggior parte della produzione artistica, soprattutto del passato, sia di matrice prettamente religiosa. I nostri musei di arti visive, ad esempio, sono stracolmi di quadri e statue a soggetto principalmente sacro. Nelle grandi pale d’altare, come nei più dimessi quadretti prodotti per la devozione privata o familiare, campeggiano Madonne, Santi in gloria, episodi biblici o della vita del Signore e dei martiri. Perché oggi, nella nostra società contemporanea, multietnica, multiculturale e multireligiosa, abbiamo scientemente deciso di non voler riconoscere le nostre indubbie “radici” culturali e religiose? L’accoglienza dell’altro non implica necessariamente il disconoscimento di se stessi, della propria tradizione, dei propri riferimenti culturali, della propria fede. Non si impone nulla ad alcuno, si è semplicemente se stessi, sempre comunque disposti ad accogliere ciò che di buono, di bello, di nobile e di universalmente valido riscontriamo negli altri, come ben sottolineano diversi documenti del Concilio Vaticano II.

Quindi, iniziamo la riflessione con un semplice quesito: perché la Chiesa, nel corso dei secoli, ha sempre promosso, incoraggiato e sostenuto le arti e gli artisti? L’immediata e più scontata e forse banale risposta potrebbe essere così formulata: perché nell’arte si è individuata la prima e più facile espressione del prestigio, del potere e del fasto. Certo, se pensiamo alla vasta e straordinaria produzione artistica rinascimentale queste considerazioni e sentimenti di natura prettamente “mondana” appaiono più che avvalorati. Non può essere sottaciuto o celato il fatto che i papi, soprattutto del tardo Quattrocento e del Cinquecento, abbiano visto nell’arte una splendida occasione per avvalorarsi alla stregua degli altri monarchi e delle altre potenze “mondiali” all’epoca in auge, soprattutto europee. Il circondarsi di opere preziose e belle denotava e connotava il prestigio raggiunto, il potere economico acquisito, una sorta di “status symbol” dalla forza eloquente e universalmente riconosciuta, oltre che, ovviamente, la ricerca personalistica dell’agio o del benessere del proprio clan familiare (si pensi, ad esempio, ai giustamente contestatissimi Borgia). Dobbiamo però ammettere che questa sete “mondana”, sicuramente non evangelica e da molti punti biasimevole, ha concesso e regalato all’umanità opere di straordinario ingegno artistico.

Di seguito sono offerti alcuni semplici spunti di riflessione; umili considerazioni senza pretesa di completezza o esaustività; mentre ringrazio di cuore della benevola attenzione.

Mi preme, dunque, concentrare l’attenzione sulle motivazioni più nobili che hanno spinto la Chiesa, nel corso del tempo, a incoraggiare l’arte in tutte le sue espressioni.

  1. LA DIMENSIONE “ESTETICA”. Nel Libro della Genesi ci viene comunicato come sia lo stesso Signore a compiacersi della propria Creazione, ad ammirare l’uomo come realtà inizialmente buona e positiva perché da Lui direttamente voluto: “Fatto simile a noi”. Dio conferisce all’umanità il suo stesso “potere” creativo, segnato unicamente dal limite inerente alla propria condizione di creatura e non di Creatore. Dio crea cose belle e buone e l’uomo, analogamente, è chiamato ad elaborare ciò che gli è stato affidato dal Signore producendo, anch’egli, realtà belle e buone.

Fin dall’origine, dunque, la dimensione “artistico/creativa” dell’uomo è vocata (“chiamata”) ad esercitarsi ed esprimersi ai suoi massimi livelli. L’uomo deve produrre il bello e il buono, non solo l’utile, perché ciò che è bello e buono è richiamo a Dio, fa riferimento a Lui e al Suo mondo, avvicina la condizione umana a quella divina, aiuta ad elevare lo spirito, la mente e il cuore alla dimensione eterna, trascendente, intramontabile… In altre parole: ciò che di bello produciamo ci avvicina al Sommo Bello; ciò che di bene facciamo ci avvicina al Sommo Bene e, analogamente, se facciamo il male ci allontaniamo da ciò che è Sommo in ciò che è meglio, ci distanziamo da Dio. L’Umanità che ripudia Dio, secondo quanto ci vien sempre riferito nel Libro della Genesi, non trova la propria emancipazione dal Signore ma si allontana da Lui: il Creatore diventa un estraneo; l’io personale si “ammala” di egoismo; l’altro non è più da amare ma da accusare; la natura si ritorce contro… In sintesi: la Chiesa ha voluto si producessero cose belle perché il bello è un forte richiamo a Dio e eleva lo spirito e l’anima umani all’orizzonte dell’eterna Bellezza.

  1. LA DIMENSIONE “CATECHETICO – PEDAGOGICA”. È indubitabile come, soprattutto nel passato, si rendesse indispensabile veicolare i messaggi più alti e nobili della fede e la conoscenza delle “verità fondamentali” attraverso mezzi che fossero immediatamente alla portata di tutti, non solo delle persone colte che, come sappiamo, erano una sparuta minoranza. Il popolo, come ancor oggi tutti noi, andava “nutrito” della Parola di Dio, una parola che poteva, dai più, essere solo ascoltata ma non letta. Un’occasione in più era evidentemente offerta dalla produzione delle immagini. Nel Medioevo molte chiese della nostra Penisola erano interamente ricoperte di affreschi murali, non solo raffigurazioni del Signore, della Vergine Maria o dei Santi ma, anche, di molti riquadri entro i quali erano raffigurati, in modo plastico, i principali avvenimenti dell’Antico e del Nuovo Testamento come, anche, della vita della Madonna o dei martiri.

Ne sono ancor viva testimonianza di ciò alcune antiche chiese campestri medievali o tardo medievali presenti sulla catena alpina, anche piemontese (esempio lampante in tal senso è la parrocchiale di Elva, sulle montagne cuneesi – XV/XVI secolo). A livello nazionale possiamo pensare al meraviglioso ciclo di affreschi sulla vita di San Francesco presente nella Basilica Superiore di San Francesco ad Assisi, opera del sommo Giotto (XIII secolo). Allo stesso Giotto si deve la Cappella degli Scrovegni di Padova. Meno noti, ma di straordinario valore artistico e iconografico, le decorazioni della chiesa Collegiata di Santa Maria Assunta nello splendido borgo medievale toscano di San Gimignano (Antico e Nuovo Testamento, Giudizio Universale, Storie della vita di San Nicola, Santi vari…). Di questa mentalità catechetico/pedagogica è segno, inequivocabile, ciò che si attua nella maggior parte delle chiese parrocchiali della nostra Penisola a partire dalla fine del XVI secolo. Mi riferisco alla strabiliante diffusione delle compagnie laicali della Beata Vergine del Rosario. Il 7 ottobre 1571 la coalizione degli stati e dei regni cattolici, sotto l’egida del Papa, fermò, durante una straordinaria battaglia navale a Lepanto (Grecia), l’ormai inesorabile avanzata di conquista territoriale turco/musulmana dell’Europa. La vittoria cristiana fu attribuita dal papa San Pio V, Alessandrino, all’intercessione della Vergine Maria, invocata come Regina del Rosario. Da qui il nascere e l’incrementarsi sensibilmente della devozione alla Madonna, il sorgere in quasi ogni paese delle associazioni popolari del Rosario, l’innalzarsi di chiese e oratori pubblici e privati, cappelle laterali e sacelli in onore della Madre di Dio. Gli altari vengono adornati da splendide pale riproducenti la Madonna e il Bambino intenti a consegnare a San Domenico di Guzman e a Santa Caterina da Siena le “mistiche” corone del Rosario.

Nelle molte comunità del sud Piemonte maestri indiscussi di raffinatezza in tali raffigurazioni furono i noti pittori Guglielmo Caccia (1568-1625), detto il “Moncalvo”, e la figlia Orsola Maddalena (1596-1676). Risulta interessante notare come in tali quadri d’altare siano anche raffigurati, in diverse e fantasiose disposizioni, i quindici Misteri. Lo scopo era evidente: aiutare i fedeli, durante la preghiera, a concentrare l’attenzione sul Mistero enunciato ponendo, sotto gli occhi di tutti, l’immagine visiva del Mistero stesso. Ecco una testimonianza ulteriore di come la Chiesa ha e avesse a cuore l’insegnamento, la catechesi, la preghiera comunitaria o personale… sostenendo e facilitando il fedele anche con aiuti di tipo “visivo” e “tangibili”.

  1. LA DIMENSIONE “DEVOZIONALE”. Fine ultimo della Chiesa è che l’uomo trovi la sua giusta armonia con Dio, con se stesso, con i fratelli, con il creato. In questa continua e ininterrotta ricerca, un posto rilevante è da attribuirsi alla devozione o, come un tempo si diceva, alla “pietas”. L’arte sacra, con la dolcezza delle sue raffigurazioni (si pensi alle sublimi e algide Madonne di Raffaello, tanto per citare un sommo maestro) e con la maestosità delle sue composizioni cromatiche, scultoree o musicali, è chiamata ad elevare lo spirito, riscaldare i cuori, infondere sane emozioni, orientare e spingere al bene (“Caritas Christi urget nos!”), indicare il cammino e la meta ultima (la “Casa del Padre”). Ciò avviene attraverso il costante ed intimo percorso “devozionale” di ciascuno di noi. Contemplare un’opera d’arte sacra dovrebbe aiutarci a riflettere sul senso del nostro vivere, sull’orientamento che stiamo imprimendo all’esistenza… in una parola suscitare un atteggiamento “orante”. Le opere artistiche religiose sono state prodotte, dai grandi e celebri come dai più umili o sconosciuti autori, per suscitare la devozione e la preghiera. Chi di noi non ricorda di essersi raccolto innanzi ad una statua mariana custodita in un grande santuario o all’interno di una semplice e dimessa chiesa campestre “trasudante” intima spiritualità? Chi non rimpiange, magari ritornando con la mente alla propria infanzia, le semplici, umili e incerte preghiere di un fanciullo innanzi ad un quadretto sacro nella propria casa o, forse, all’asilo, qualora avesse frequentato le scuole rette dalle suore? Chi non ha mai rammentato le care immagini sacre della propria chiesa parrocchiale quando è stato costretto, dalla vita o dalle circostanze, a stare lontano dal proprio paese natio?

Comunità, presbiteri, sinodalità nel ministero. Relazione di Don Carmelo Raspa al 20° del Club di Acireale

Riportiamo il testo completo della relazione svolta il 25 giugno ad Acireale – in occasione della celebrazione del ventennale del club – da don Carmelo Raspa, biblista, docente presso l’Istituto Teologico “San Paolo” di Catania. L’intervento, partendo dalle caratteristiche del Serra club, pone in evidenza la radice biblica del sostegno ai sacerdoti, impegno del Serra.

Comunità, presbiteri, sinodalità nel ministero

Il Serra Club

L’articolo 2 dello Statuto del Serra International afferma:

“Gli scopi e le finalità di Serra International sono:

  • favorire e promuovere le vocazioni al sacerdozio ministeriale nella Chiesa Cattolica come una particolare vocazione al servizio e sostenere i sacerdoti nel loro sacro ministero;
  • incoraggiare e valorizzare le vocazioni alla vita consacrata nella Chiesa Cattolica;
  • e aiutare i propri membri a riconoscere e rispondere, ciascuno nella propria vita, alla chiamata di Dio alla santità in Gesù Cristo per mezzo dello Spirito Santo”.

I membri del Serra sono chiamati, pertanto, avendo come modello san Junipero Serra, ad accompagnare il cammino di quanti sono chiamati alla consacrazione presbiterale o religiosa. Questa vocazione degli appartenenti al Serra si esplica, in seno alla Chiesa, anzitutto attraverso la cura della propria vita spirituale e la formazione continua all’intelligenza della fede, perché l’annuncio del vangelo sia autentico ed efficace ed il discernimento sulle persone, delle quali si segue il cammino, sia sostenuto dallo Spirito di sapienza.

Ancora, i membri serrani sono chiamati a coadiuvare i presbiteri in ordine allo svolgimento del loro ministero. Quest’appello si caratterizza come presenza attiva nei contesti dove il presbitero opera: non a caso, il Regolamento annesso allo Statuto, all’art.8 sez. 2 chiede ai membri serrani un impegno totale nelle attività del Club e in quelle del contesto ecclesiale in cui ciascuno di loro vive e svolge il proprio lavoro, ragion per cui lo Statuto stesso tende a non accettare come socio del Club chi non può assicurare una partecipazione piena, almeno non nella qualità di socio vincolato (cfr. Regolamento art.8 sez. 4.6).

Insieme alla partecipazione attiva alle opere pastorali, i membri serrani offrono un sostegno economico ai seminaristi e ai presbiteri in difficoltà. L’art. 13 del Regolamento proibisce la raccolta fondi come scopo del singolo Club, ma permette ad esso lo svolgimento di “attività per raccogliere fondi per la promozione degli obiettivi e delle finalità di Serra International”. Inoltre, l’11 novembre 1994 è stata eretta la Fondazione di Religione e Culto, la quale, oltre a prevedere, tra i suoi scopi l’aiuto ai presbiteri e ai religiosi che “per ragioni di età, salute o altro incontrino difficoltà nello svolgere il proprio ministero”, presenta un “ramo ONLUS, la cui peculiare attività di beneficenza ha esclusive finalità di solidarietà sociale, essendo rivolta a giovani seminaristi bisognosi delle Diocesi italiane e consiste in contributi e borse di studio”.

Il sostegno economico a seminaristi e presbiteri, promosso dal Serra, si inserisce in una tradizione che, a partire dalla Scrittura, individua l’aiuto concreto alla persona “consacrata” come un dono di grazia (cfr 2Cor 8,1) da parte di Dio ed una forma di partecipazione all’annuncio del Vangelo e alle attività pastorali e missionarie.

Il dato veterotestamentario

Il libro del Lv prescrive che parte dell’olocausto e dei sacrifici di comunione sia data al sacerdote:

“Aronne e i suoi figli mangeranno quel che rimarrà dell’oblazione; lo si mangerà senza lievito, in luogo santo, nel recinto della tenda del convegno. Non si cuocerà con lievito; è la parte che ho loro assegnata delle offerte a me bruciate con il fuoco. È cosa santissima come il sacrificio espiatorio. Ogni maschio tra i figli di Aronne potrà mangiarne. È un diritto perenne delle vostre generazioni sui sacrifici consumati dal fuoco in onore del Signore. Tutto ciò che verrà a contatto con queste cose sarà sacro” (Lv 6,9-11).

E ancora:

“Darete anche in tributo al sacerdote la coscia destra dei vostri sacrifici di comunione. Essa spetterà, come sua parte, al figlio di Aronne che avrà offerto il sangue e il grasso dei sacrifici di comunione. Poiché, dai sacrifici di comunione offerti dagli Israeliti, io mi riservo il petto della vittima offerta con l’agitazione di rito e la coscia della vittima offerta con l’elevazione di rito e li do al sacerdote Aronne e ai suoi figli per legge perenne, che gli Israeliti osserveranno. Questa è la parte dovuta ad Aronne e ai suoi figli, dei sacrifici bruciati in onore del Signore, dal giorno in cui eserciteranno il sacerdozio del Signore. Agli Israeliti il Signore ha ordinato di dar loro questo, dal giorno della loro unzione. È una parte che è loro dovuta per sempre, di generazione in generazione” (Lv 7,32-36).

La norma s’inquadra in una legislazione più ampia, secondo la quale sacerdoti e leviti non debbano possedere nessuna terra, essendo il Signore la loro eredità (ebr. na?al?h: cfr Nm 18,20-24; 26,62): da tutta la comunità degli Israeliti bisogna assicurare loro il sostentamento attraverso l’offerta dei sacrifici, da cui prelevare la parte loro spettante, e la presentazione delle decime (cfr Nm 18,8-9.25-28). In Nm 35 ai leviti saranno, tuttavia, riservate delle città, quarantotto in tutto, delle quali sei saranno costituite come città di rifugio per l’omicida.

Essendo “un regno di sacerdoti e una nazione santa” (Es 19,6), costituito tale da Dio, Israele esplica il servizio liturgico attraverso sacerdoti e leviti, entrambi discendenti di Aronne. Ogni membro del popolo è tenuto a presentare dei sacrifici e delle offerte o in occasione delle feste o per particolari situazioni: il rito sacrificale è compiuto dal sacerdote, aiutato in questo dal levita, mentre l’azione liturgica rimane propria di tutta la comunità di Israele. In tal modo, il sostegno a sacerdoti e leviti, che non hanno parte nella terra promessa, è inteso nell’ottica di una partecipazione al loro ministero da parte di tutto Israele, il quale rimane esso popolo sacerdotale da cui il Signore designa poi dei consacrati per il servizio rituale. La partecipazione, in questo caso, non è da interpretare nell’ottica di un’esclusività ministeriale di sacerdoti e leviti: il sostegno a questi ultimi da parte di Israele è esercizio della sua identità sacerdotale.

Il dato neotestamentario

La comunità cristiana vede perpetuarsi il sostegno economico all’apostolo come espressione dell’opera di evangelizzazione che essa è chiamata a compiere. Allo stesso modo di Israele, anche per la chiesa primitiva l’annuncio del Vangelo, che essa è chiamata a compiere, passa attraverso l’aiuto concreto fornito a quanti si occupano pienamente di diffondere la buona notizia del Regno. In realtà, due sono le visioni che si scontrano in tal senso, una facente capo a dei missionari della cerchia pietrina, come sembra, l’altra avente il suo esponente in Paolo. La controversia è delineata da quest’ultimo nell’epistolario ai Corinti: purtroppo è assente il punto di vista degli avversari di Paolo, cioè dei missionari petrini di cui sopra, dei quali possiamo avere notizie ricavandole indirettamente proprio dagli stessi scritti paolini.

Per la comunità di Corinto Paolo prova “una specie di gelosia divina” (2Cor 11,2) e la sua amarezza è grande nel constatare quanto poco affetto i corinti gli dimostrino e quanta poca fiducia ripongano in lui, lasciandosi attirare facilmente nelle maglie degli oppositori, i nuovi arrivati. 

Motivo della divisione è il rifiuto da parte di Paolo di essere sostentato dalla comunità, il che era ritenuto un grave affronto, in quanto, sostenendo l’apostolo, si partecipava, come rilevato, alla sua attività missionaria. Ad aggravare la situazione i continui cambiamenti di viaggio di Paolo, che lo costringono ad una distanza prolungata da Corinto, e la richiesta della colletta per Gerusalemme, sulla quale cade il sospetto di furto, anche perché Paolo si presenta senza lettere di raccomandazione da altre comunità. In tale contingenza è facile per gli oppositori trascinare i corinti dalla loro parte, mettendo in discussione la legittimità stessa del ministero paolino proprio a partire dal sostentamento: da qui il contrasto si allarga sino ad inglobare la conoscenza delle Scritture e della Legge (cap. 3), la dimostrazione di segni e prodigi (cap. 12), l’abilità retorica (cap. 10,10).

Paolo aveva comunque già spiegato il motivo del rifiuto del sostentamento in 1Cor 9: la predicazione del Vangelo è per lui un destino impostogli da Dio (v. 17). D’altronde, il sostentamento dell’apostolo da parte della comunità risponde ad un comando di Gesù stesso, che Paolo cita e reinterpreta (v. 14). Come ogni lavoratore ha diritto al suo compenso, così anche l’apostolo: e in ciò sono concordi anche le Scritture (al v. 9 si cita Dt 25,4 applicato al lavoro apostolico). Si tratta di una povertà che fa affidamento su Dio e sulla carità altrui, cosa che Paolo sembra smentire sostenendosi con il suo lavoro. Paolo, però, comprende bene che la povertà dell’apostolo non è più tale, bensì è divenuta un privilegio alla maniera di quello veterotestamentario per i sacerdoti del tempio (vv. 13-14), il che nuoce alla veracità dell’apostolo. Paolo, rinunciando a questo privilegio in Corinto, tradisce la lettera del comando di Gesù, ma non lo spirito: in tal senso è “nella legge di Cristo” (v. 21). La verità e la legittimazione del suo apostolato (v. 1) sono dati non dall’accettare o meno il sostentamento dalla comunità di Corinto, ma dalle tribolazioni in cui versa a causa del Vangelo, tra le quali in 1Cor 4,12 compare anche lo stesso lavoro, reso molto precario dai rischi della missione. La sua ricompensa sta in tutti coloro che vengono salvati (vv. 22-23), come la sua lettera di raccomandazione è la stessa comunità di Corinto. Come giustamente nota G. Theissen, “il problema teologico della legittimità dell’apostolo è indissolubilmente connesso con il problema materiale del sostentamento. È fuor di dubbio che in origine dietro la decisione di diventare carismatici itineranti stava un motivo religioso, ma, una volta presa questa decisione, si erano scelte con ciò delle condizioni di vita rispetto alle quali ci si veniva poi a trovare in uno stato di dipendenza – dipendenza che incideva anche sull’argomentazione teologica. In virtù della propria autonomia materiale, Paolo aveva invece indubbiamente una maggiore libertà di ragionamento teologico” (G. Theissen, Sociologia del cristianesimo primitivo, Marietti 1987, 203).

Paolo ricorda, tuttavia, di essere stato sostenuto dalla comunità di Filippi (Fil 4,15-18) e dai Macedoni (2Cor 11,9).

Attualizzazioni problematiche in ordine al cammino sinodale

Il Codice di Diritto Canonico al can. 517 paragrafo 2 del libro II stabilisce: “Nel caso che il Vescovo diocesano, a motivo della scarsità di sacerdoti, abbia giudicato di dover affidare ad un diacono o ad una persona non insignita del carattere sacerdotale o ad una comunità di persone una partecipazione nell’esercizio della cura pastorale di una parrocchia, costituisca un sacerdote il quale, con la potestà e le facoltà di parroco, sia il moderatore della cura pastorale”.

Il testo necessità di una precisazione terminologica che è anche teologica: è la comunità cristiana a possedere il carattere sacerdotale. In seno ad essa sono poi ordinati dei presbiteri, ai quali impropriamente viene assegnato l’appellativo di sacerdote; appellativo che individua, tuttavia, l’azione rituale, espressione di quella liturgica compiuta da tutta la comunità. Il sacerdozio di Cristo è partecipato a tutta l’assemblea dei cristiani, i quali celebrano l’Eucaristia, all’interno della quale la dimensione più propriamente rituale è affidata al presbitero.

Il presbitero è, infatti, ordinato per la presidenza dell’Eucaristia e l’amministrazione dei sacramenti. In questo, il ministero del presbitero va distinto dall’ufficio di parroco, che può essere assunto, come recita il testo del Codice di Diritto Canonico, anche da una comunità di persone, cioè dai battezzati. L’ufficio di parroco include una rappresentatività legale che comporta responsabilità amministrative e penali: esso non va identificato con il ministero del presbiterato, com’è purtroppo prassi fare. L’ufficio di parroco può essere svolto da una sorta di consiglio di comunità che risponde di tutti gli aspetti amministrativi nei termini della legislazione civile ed ecclesiastica. Il cammino sinodale dovrebbe, forse, condurre a questa forma di espressione della comunità cristiana per ciò che concerne gli aspetti più propriamente amministrativi.

In tale contesto, la remunerazione derivante in Italia dall’otto per mille è indirizzata all’ufficio di parroco. Il sostegno economico al presbitero si configura, diversamente, come espressione dell’essere sacerdotale della comunità che in tal modo collabora con chi è consacrato a tempo pieno all’annuncio del Regno e all’opera di salvezza e guarigione, rappresentata dai sacramenti. In realtà, il problema è molto più ampio e investe l’ecclesiologia, il modo cioè in cui la Chiesa si pensa alla luce della Parola di Dio e della Tradizione. Rimane costante, tuttavia, il dato secondo il quale è la comunità per intero ad essere corpo sacerdotale, di cui Cristo è il membro. In questo corpo vi sono carismi, ministeri, uffici, derivanti dallo stesso Spirito, per l’utilità comune (cfr Ef 4). La comunità è chiamata tutta intera a vivere l’opera di evangelizzazione e a sentirsene responsabile, anche attraverso il sostegno economico che si indirizza a diversi aspetti e a diverse figure, tra le quali compare anche quella dei presbiteri. In tal senso, occorre probabilmente sviluppare in ogni battezzato il senso di appartenenza alla compagine ecclesiale, oggi affievolito per diverse cause: isolamento sociale, privatizzazione del sacramento stesso, mancanza di formazione e di catechesi continua. Il cammino sinodale potrà giungere ad una diversa configurazione della comunità cristiana, oggi individuata dalla parrocchia per lo più, soltanto se i battezzati si sentiranno parte viva di essa e contribuiranno alla sua edificazione in maniera entusiasta e partecipe, non da spettatori, ma da protagonisti. Il presbitero, in tal modo, ricondotto alla sua identità potrà svolgere quanto ad essa è inerente in un clima gioioso e appassionato, senza preoccupazioni eccessive, aprendo il cuore alla carità della condivisione. In tale contesto, l’aspetto economico sarà vissuto come grazia, riconoscendo che quanto ciascuna dona è in realtà quanto gratuitamente ha ricevuto, poiché, se l’uomo fatica, è Dio che porta a compimento l’opera (cfr Sal 138,8). Ciò significa che la parola di Gesù appassiona, inquieta e cerca nuove forme per giungere agli uomini. Al tal proposito – e ci sembra una buona conclusione – scrive Theissen riguardo i missionari cristiani della chiesa primitiva in opposizione tra di loro di cui sopra: “Studiandoli, si può imparare questo, che quando una religione cessa di essere il cor inquietum di una società, quando le viene a mancare il desiderio di una nuova forma di vita, quando diviene sostanza senza spirito di una situazione sclerotizzata e clericalizzata, allora dovrebbe sapere di essere finita” (G. Theissen, op. cit., 206).

Desiderio Desideravi: riscoprire la liturgia anche attraverso la musica

“Continuiamo a stupirci per la bellezza della liturgia”: a lanciare l’invito è papa Francesco, nella Lettera apostolica sulla liturgia “Desiderio desideravi”, pubblicata lo scorso 29 giugno per richiamare il significato profondo della Celebrazione Eucaristica, così come è emersa dal Concilio Vaticano II, ed invitare alla formazione liturgica, a partire dai seminari. “A noi non serve un vago ricordo dell’ultima Cena: noi abbiamo bisogno di essere presenti a quella Cena”, esordisce Francesco: “Vorrei che la bellezza del celebrare cristiano e delle sue necessarie conseguenze nella vita della Chiesa non venisse deturpata da una superficiale e riduttiva comprensione del suo valore o, ancor peggio, da una sua strumentalizzazione a servizio di una qualche visione ideologica, qualunque essa sia”. No alla “mondanità spirituale”, ribadisce il Papa, secondo il quale la liturgia “non è la ricerca di un estetismo rituale che si compiace solo nella cura della formalità esteriore di un rito o si appaga di una scrupolosa osservanza rubricale”, e neanche l’atteggiamento opposto, “che confonde la semplicità con una sciatta banalità, l’essenzialità con una ignorante superficialità, la concretezza dell’agire rituale con un esasperato funzionalismo pratico”.

“Ogni aspetto del celebrare va curato (spazio, tempo, gesti, parole, oggetti, vesti, canto, musica, …) e ogni rubrica deve essere osservata”, l’appello di Francesco, che si sofferma su un elemento essenziale della celebrazione liturgica: “lo stupore per il mistero pasquale”.

In quest’ottica, ben si inserisce il concorso musicale attivato da Serra Italia durante quest’ultimo anno sociale per tutti i seminaristi d’Italia, il cui fine è appunto quello di promuovere e valorizzare le potenzialità dei futuri sacerdoti, affinché ogni aspetto della celebrazione sia curato. D’altronde, è proprio attraverso la musica – sostiene mons. Marco Frisina, nostro giurato – che “si può comunicare il Vangelo nella sua verità di Buona Notizia, di gioiosa notizia che libera il cuore dell’uomo dalle meschinità del peccato e lo innalza fino a Dio”.

59a Giornata Mondiale di Preghiera per le Vocazioni: Messaggio del Papa

L’8 maggio 2022, IV Domenica di Pasqua, si celebra la 59a Giornata Mondiale di Preghiera per le Vocazioni sul tema “Chiamati a edificare la famiglia umana”.

Pubblichiamo di seguito il Messaggio di Papa Francesco  Continua a leggere

Le Beatitudini: tradizione ebraica e novità cristiana

Le Beatitudini: tradizione ebraica e novità cristiana

di don CArmelo Raspa

Il 4 marzo 2022, nella chiesa del SS. Salvatore di Palermo, d. Carmelo Raspa ha tenuto l’incontro di formazione del Serra Club di Palermo, sul tema dell’anno. La riflessione, ricca di spunti, ha suscitato un dialogo vivace. Riportiamo di seguito il testo fornito dal relatore (per citazioni e bibliografia, si rimanda all’articolo del relatore Le beatitudini a causa della giustizia (Mt 5,6.10) pubblicato su Horeb n. 90/3 (2021) 27-33).

L’identità di chi ascolta

Il termine “giustizia” sembra strutturare il discorso della montagna (Mt 5-7). Esso ricorre nei seguenti passi:

5,6: “Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia perché saranno saziati”;

5,10: “Beati i perseguitati per causa della giustizia, perché di essi è il regno dei cieli”;

5,20: “Poiché io vi dico: se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli”;

6,1: “Guardatevi dal praticare le vostre buone opere (in greco: la vostra giustizia) davanti agli uomini per essere da loro ammirati, altrimenti non avrete ricompensa presso il Padre vostro che è nei cieli”;

6,33: “Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta”.

Nella serie delle Beatitudini, esso divide le proposizioni in due parti costituite da 4 membri ciascuna. Inoltre, la beatitudine di 5,10, concludendosi con l’espressione “regno dei cieli”, forma un’inclusione letteraria con la prima di 5,3, che si chiude con il medesimo sintagma. La forma grammaticale “ a causa della giustizia” è parallela al “a causa mia” di 5,11: in tal modo, la beatitudine di 5,10 apre quella di 5,11-12, alla quale si lega strettamente facendovi confluire tutte le precedenti beatitudini, che, in tal modo, si ritrovano riassunte nell’ultima.

In 5,20, la giustizia è richiesta in misura qualitativamente maggiore rispetto a quella praticata da scribi e farisei: l’esortazione apre una serie di sei antitesi, raggruppate in due gruppi di tre, nelle quali Gesù conferma l’affermazione di 5,17, secondo la quale egli è venuto non ad abrogare, ma a compiere la Torah e i profeti. Il verbo “compiere” lo si ritrova in 3,15, nell’incontro tra Giovanni Battista e Gesù, unitamente al termine “giustizia”, per cui le due espressioni sono semanticamente affini. Il compimento della giustizia attraverso il “fare” la Parola è, infatti, illustrato nelle sei interpretazioni di alcuni passi veterotestamentari, inerenti aspetti della vita relazionale e sociale, che Gesù fornisce e che rappresentano un novum nel solco della catena ermeneutica della tradizione. L’interpretazione dei passi, che Gesù fornisce, prevede un’applicazione più rigida dei precetti rispetto a quella con la quale si confronta nel testo matteano. Gesù stesso ha insegnato, infatti, in 5,19: “Chi dunque trasgredirà uno solo di questi precetti, anche minimi, e insegnerà agli uomini a fare altrettanto, sarà considerato minimo nel regno dei cieli. Chi invece li osserverà e li insegnerà agli uomini, sarà considerato grande nel regno dei cieli”. In realtà, molti degli insegnamenti di Gesù si ritrovano nei trattati del Talmud, a testimoniare di come quella gesuana fosse un’ermeneutica condivisa da alcuni maestri del suo tempo: le interpretazioni delle Scritture e i precetti che ne derivano dovevano rappresentare un patrimonio comune che Gesù conosce, avendolo studiato, e che rilancia nel dibattito. Il vangelo di Matteo ed il Talmud hanno conservato questo ricco patrimonio.

Il detto di 6,1 costituisce un appello a non compiere la giustizia ipocritamente di fronte a tutti. Il termine “giustizia” può essere qui accostato all’espressione rabbinica “opere di misericordia” che si ritrova nel trattato m.A?ot 1,2 e che indica tutta quella gamma di azioni che “impegnano un uomo sia nella persona che nel denaro” (R. Jonà). In tal senso il passo di 6,1 si lega alle “opere belle” di 5,16, compiute perché gli uomini lodino Dio, non chi le compie, al quale, al contrario, è richiesto di abitare il nascondimento di sé, per rivelare meglio, in tal modo, come tutto il bene in lui sia opera di Dio stesso. L’esplicitazione dei versetti successivi comprende, infatti, il modo di elargire l’elemosina, di pregare e di digiunare come pure quello di rapportarsi alle ricchezze e di affidarsi fiduciosamente a Dio che provvede ad ogni esigenza, senza per questo indulgere all’ozio. La richiesta di 6,33 è, infatti, un ordine pressante a perseguire il regno di Dio e la sua giustizia, dove il verbo all’imperativo indica un’azione incessante: il precetto, in questo caso, non va compiuto in un dato luogo e in un tempo ben fissato, come potrebbe essere quello concernente il Sabato, ma sempre e dovunque. Il termine “giustizia” in 6,33 riassume, pertanto, il modo di essere e di vivere tratteggiato fin qui all’interno del discorso della montagna da Gesù. Essa si applica all’identità dei discepoli e delle folle accorse sul monte ad ascoltare Gesù (5,1). Il monte non è solo allusivo tipologicamente del Sinai, luogo della rivelazione di YHWH a Israele mediante Mosè, lì dove l’alleanza è ratificata attraverso il dono della Torah (cfr. Es 19): esso simboleggia pure Sion, ai piedi del quale le nazioni apprendono da Israele come camminare nella Torah di Dio.

Fame e sete di giustizia

Se il discorso della montagna è da intendersi come la definizione dell’identità di una comunità che segue gli insegnamenti di Gesù – un’identità che si struttura attraverso la realtà espressa dal lessema “giustizia” – le Beatitudini in esso non vanno intese “come l’espressione di un ideale religioso astratto, ma in riferimento alla persona di Gesù, in cui la volontà di Dio si manifesta pienamente”. Le Beatitudini non rappresentano uno sforzo volontaristico, un manifesto programmatico di stampo utopistico, un’esortazione a fare di più e meglio, una benedizione meritoria o la promessa di una felicità quale ricompensa: essendo al presente esse si rivelano come “affermazioni di una realtà che già esiste, ma che ha bisogno di una parola che la riveli. Attraverso le beatitudini Gesù manifesta in che senso il regno di Dio, da lui annunciato come fattosi vicino, è presente”.

In Mt 5,6 gli affamati e assetati di Lc 6,21a sono non più coloro che mancano del pane quotidiano in contrapposizione ai troppo sazi (cfr. Lc 6,25a), ma coloro che desiderano la giustizia. I verbi “aver fame” e “aver sete” al presente denotano un bisogno continuo; il verbo “saziare” nell’apodosi non sembra riferirsi alla giustizia, ma al regno di Dio. Sulla scia di diverse allusioni veterotestamentarie (cfr Is 49,9-10; Sir 24,19-22) come pure degli scritti di Qumran e di Filone Alessandrino, sembra che in questo caso il termine “giustizia” debba intendersi, ad un tempo, come il dono escatologico di Dio che è posto continuamente in essere dalla condotta di quanti si conformano alla sua volontà, seguendo gli insegnamenti di Gesù. In tal senso, per comprenderne il significato, è bene ricordarsi che la giustizia insieme al diritto, che regolano l’ordine sociale in Israele, promanano dalla santità di Dio che abita il Tempio. Il popolo di Israele è chiamato ad essere santo come il suo Signore, vivendo costantemente relazioni di giustizia che investono gli uomini ed il creato.

Perseguitati per la giustizia

L’ottava beatitudine è presente solo in Mt 5,10 e manca nel parallelo lucano. Il verbo “perseguitare” appare, oltre che in Mt 5,10, nell’ultima beatitudine di 5,11, strettamente legata alla precedente, e ancora in 5,44; 10,23a; 23,34, in contesti chiaramente ostili a quanti seguono gli insegnamenti di Gesù, ai quali, come nella prima beatitudine, è assicurato il possesso attuale del regno dei cieli (si crea un’inclusione tra la prima e l’ottava beatitudine proprio attraverso il sintagma “regno dei cieli”). Il motivo della persecuzione è la giustizia: l’espressione “per la giustizia” è parallela a “per causa mia” di 5,11, ma non equivalente.

Sembra che Mt 5,10 sia simile a 1Pt 3,14a: “E se anche doveste soffrire per la giustizia, beati voi!”, espressione che si illumina grazie al precedente v. 13 in cui i cristiani vengono rassicurati che nulla potrà far loro del male se rimangono zelanti nel bene. In 3,17 Pietro raccomanda ai cristiani: “È meglio, infatti, se così esige la volontà di Dio, soffrire facendo del bene che facendo il male”, riferendosi alle calunnie ingiuste dei persecutori. Il passo di 3,17 si lega così a 2,20b: “se facendo il bene sopporterete con pazienza la sofferenza, ciò sarà gradito davanti a Dio”.

In Mt 5,11 è detto che i cristiani sono vittime di false accuse. Mt allarga così il detto di Lc 6,22. Il participio “mentendo” specifica il “diranno ogni sorta male contro di voi per causa mia”. Dall’uso del verbo “mentire” nel vangelo di Mt (15,19; 19,18; 26,59) si comprende come il tema della falsa testimonianza preoccupi l’evangelista. In 1Pt 4,15 si invitano i cristiani ad allontanarsi da quelle sofferenze che non sono provocate dal vivere il vangelo, ma, al contrario, dall’essere “omicida o ladro o malfattore o delatore”; ancora, in 1Pt 2,12.15 l’esortazione loro rivolta è ad assumere una buona condotta e a praticare il bene per dimostrare false le accuse dei calunniatori. La pratica del bene in Mt 5,16 si esprime nelle “opere belle”. In questo caso l’accusa è falsa solo se la condotta dei cristiani è irreprensibile a motivo del loro legame con Gesù.

Essere perseguitati per la giustizia è una beatitudine per i seguaci di Gesù “solo se le accuse avanzate contro di loro sono false e solo se essi soffrono a motivo di Cristo”.

La pratica della giustizia

Legandosi strettamente alla persona e all’insegnamento di Gesù, i suoi discepoli e quanti ne accolgono l’insegnamento, che egli dona interpretando la Torah, praticano la giustizia esprimendola nelle opere belle. Si tratta di una continua tensione verso questo bene escatologico inaugurato nel presente della storia dal dono di amore di Gesù e che si traduce in una santità che diviene giusta relazione con Dio, con gli uomini, con il creato. La beatitudine che segue a chi ha fame e sete della giustizia e a chi per essa è perseguitato non è conferita solo in virtù di una fede professata o di un nome di appartenenza. La giustizia va vissuta (cfr 1Pt 2,24): questo significa abbracciare radicalmente la vita evangelica, che si traduce in un ascolto intelligente, attento e perseverante della Parola, in una preghiera umile e grata, composta di sobrietà, in una fiducia illimitata nell’agire del Padre nella storia, in un dono d’amore che, sul modello di Gesù, ama persino i nemici, che non sono più tali. Facendo la giustizia, il discepolo rivela di appartenere totalmente a Gesù, di non disporre più di se stesso in autonomia, di aver ricevuto in dono quella libertà del cuore che non si attarda sulle piccinerie. Soprattutto, egli è consapevole di non riuscire a vivere totalmente la via tracciata dall’insegnamento di Gesù, ma “non rifiuta di trovarsela scolpita addosso dalle parole dell’unico Maestro. Anche se non riesce sempre a viverla fino in fondo, essa è qualcosa per cui lui vuole vivere, è ciò di cui lui ha fame e sete e di cui vuole essere profeta”. Perseguire la giustizia ed essere perseguitati per essa è la misura dell’accoglienza del Regno di Dio manifestato in Gesù. E quest’ultima non è legata necessariamente ad un’appartenenza, che può rivelarsi formale. Il discepolo ne è avvertito dallo stesso Gesù: “In verità vi dico: I pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio. È venuto a voi Giovanni nella via della giustizia e non gli avete creduto; i pubblicani e le prostitute invece gli hanno creduto. Voi, al contrario, pur avendo visto queste cose, non vi siete nemmeno pentiti per credergli” (Mt 21,31b-32). I pubblicani sono disprezzati a motivo della loro avidità, essendo esattori delle imposte e agendo come usurai; le prostitute già dal loro nome sono etichettate come strumenti, non come persone. Con essi siede Gesù a mensa dopo la chiamata di Matteo (cfr. Mt 9,9-13). I farisei, vedendo Gesù banchettare con loro, chiedono ai suoi discepoli, non a lui, il perché egli sieda con uomini e donne ritualmente impuri, avendo egli stesso affermato di non voler abrogare le prescrizioni della Torah. Gesù risponde loro in modo diretto, non attraverso i discepoli, ricordando il detto del profeta Osea secondo il quale Dio vuole la misericordia e non il sacrificio (cfr. Os 6,6). E aggiunge di non essere venuto per chiamare dei giusti, ma dei peccatori. Questo accade perché la giustizia che non è secondo l’insegnamento di Gesù si tramuta in presunzione, in prestazione volontaristica e meritoria: essa – insegna lo stesso Gesù – ha già ricevuto la sua ricompensa (cfr Mt 6,2b.5b.16b). La giustizia di pubblicani e peccatori è quella di non avere più nulla da difendere e nulla da dimostrare. Raggiunti dalla giustizia di Dio in Gesù che li rende perfetti come il Padre (dove la perfezione, qui, è sinonimo di giustizia: cfr Mt 5,48) essi hanno ormai e solamente tutto da donare. Nel paradosso scandaloso di essere pubblicani e prostitute e, allo stesso, discepoli del Regno, testimoniano di quella giustizia che è dono dall’alto e che raggiunge coloro che sono spogli di sé, ricchi del loro peccato, della loro umile consapevolezza del loro essere, pienamente disponibili all’azione dell’amore di Dio in loro attraverso Gesù. Costoro, nel silenzio, a volte tra giudizi ed emarginazione, camminano sulla via della giustizia, attuando le opere belle che si esprimono in quella diaconia all’uomo sofferente, la quale sarà il metro di giudizio nel Regno (cfr. Mt 25,44).

Corso di Antropologia Vocazionale. Edizione 2022. Ultimo Incontro

DIOCESI DI AVERSA
Scuola Pastorale di Teologia per Laici 2021-2022

Corso di Antropologia Vocazionale

Giovedì 24 febbraio 2022, alle ore 12:00, sesto ed ultimo appuntamento del Corso di “Antropologia Vocazionale”. Don Vincenzo Garofalo dell’Ufficio Diocesano per la Pastorale delle Vocazioni termina il Corso con la riflessione “L’Essere Umano nella Storia”, affrontando il tema ” L’intervento di Dio nella Storia dei peccatori”.

24 febbraio 2022: Sesto ed ultimo incontro “L’Essere Umano nella Storia: L’intervento di Dio nella Storia dei peccatori”.

 

VEDI GLI INCONTRI PRECEDENTI

17 febbraio 2022: Quinto incontro “L’Essere Umano nella Storia: Obbedienza e Trasgressione

 

10 febbraio 2022: Quarto incontro “L’Essere Umano nella Storia: L’Uomo sotto la Legge”

 

3 febbraio 2022: Terzo incontro “La Famiglia Umana: L’amore tra genitori e figli”

 

 

27 gennaio 2022: Secondo incontro “La Famiglia Umana: L’amore tra l’uomo e la donna”

 

20 gennaio 2022: Primo incontro

 

 

Corso di Antropologia Vocazionale. Edizione 2022. 5° Incontro

DIOCESI DI AVERSA
Scuola Pastorale di Teologia per Laici 2021-2022

Corso di Antropologia Vocazionale

Giovedì 17 febbraio 2022, alle ore 12:00, quinto appuntamento con il Modulo di “Antropologia Vocazionale”.

Giovedì 17 Febbraio 2022, alle ore 12:00, don Vincenzo Garofalo dell’Ufficio Diocesano per la Pastorale delle Vocazioni prosegue nella riflessione “L’Essere Umano nella Storia”, affrontando il tema “Obbedienza e Trasgressione”.

Il Corso prevede sei incontri saranno pubblicati ogni giovedì alle ore 12:00 su Facebook (Gruppo “Scuola Pastorale di Teologia per Laici”) e su Youtube (Canale “Chiesa di Aversa”).

17 febbraio 2022: Quinto incontro “L’Essere Umano nella Storia: Obbedienza e Trasgressione

 

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10 febbraio 2022: Quarto incontro “L’Essere Umano nella Storia: L’Uomo sotto la Legge”

 

3 febbraio 2022: Terzo incontro “La Famiglia Umana: L’amore tra genitori e figli”

 

 

27 gennaio 2022: Secondo incontro “La Famiglia Umana: L’amore tra l’uomo e la donna”

 

20 gennaio 2022: Primo incontro