Le Beatitudini: tradizione ebraica e novità cristiana

Le Beatitudini: tradizione ebraica e novità cristiana

di don CArmelo Raspa

Il 4 marzo 2022, nella chiesa del SS. Salvatore di Palermo, d. Carmelo Raspa ha tenuto l’incontro di formazione del Serra Club di Palermo, sul tema dell’anno. La riflessione, ricca di spunti, ha suscitato un dialogo vivace. Riportiamo di seguito il testo fornito dal relatore (per citazioni e bibliografia, si rimanda all’articolo del relatore Le beatitudini a causa della giustizia (Mt 5,6.10) pubblicato su Horeb n. 90/3 (2021) 27-33).

L’identità di chi ascolta

Il termine “giustizia” sembra strutturare il discorso della montagna (Mt 5-7). Esso ricorre nei seguenti passi:

5,6: “Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia perché saranno saziati”;

5,10: “Beati i perseguitati per causa della giustizia, perché di essi è il regno dei cieli”;

5,20: “Poiché io vi dico: se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli”;

6,1: “Guardatevi dal praticare le vostre buone opere (in greco: la vostra giustizia) davanti agli uomini per essere da loro ammirati, altrimenti non avrete ricompensa presso il Padre vostro che è nei cieli”;

6,33: “Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta”.

Nella serie delle Beatitudini, esso divide le proposizioni in due parti costituite da 4 membri ciascuna. Inoltre, la beatitudine di 5,10, concludendosi con l’espressione “regno dei cieli”, forma un’inclusione letteraria con la prima di 5,3, che si chiude con il medesimo sintagma. La forma grammaticale “ a causa della giustizia” è parallela al “a causa mia” di 5,11: in tal modo, la beatitudine di 5,10 apre quella di 5,11-12, alla quale si lega strettamente facendovi confluire tutte le precedenti beatitudini, che, in tal modo, si ritrovano riassunte nell’ultima.

In 5,20, la giustizia è richiesta in misura qualitativamente maggiore rispetto a quella praticata da scribi e farisei: l’esortazione apre una serie di sei antitesi, raggruppate in due gruppi di tre, nelle quali Gesù conferma l’affermazione di 5,17, secondo la quale egli è venuto non ad abrogare, ma a compiere la Torah e i profeti. Il verbo “compiere” lo si ritrova in 3,15, nell’incontro tra Giovanni Battista e Gesù, unitamente al termine “giustizia”, per cui le due espressioni sono semanticamente affini. Il compimento della giustizia attraverso il “fare” la Parola è, infatti, illustrato nelle sei interpretazioni di alcuni passi veterotestamentari, inerenti aspetti della vita relazionale e sociale, che Gesù fornisce e che rappresentano un novum nel solco della catena ermeneutica della tradizione. L’interpretazione dei passi, che Gesù fornisce, prevede un’applicazione più rigida dei precetti rispetto a quella con la quale si confronta nel testo matteano. Gesù stesso ha insegnato, infatti, in 5,19: “Chi dunque trasgredirà uno solo di questi precetti, anche minimi, e insegnerà agli uomini a fare altrettanto, sarà considerato minimo nel regno dei cieli. Chi invece li osserverà e li insegnerà agli uomini, sarà considerato grande nel regno dei cieli”. In realtà, molti degli insegnamenti di Gesù si ritrovano nei trattati del Talmud, a testimoniare di come quella gesuana fosse un’ermeneutica condivisa da alcuni maestri del suo tempo: le interpretazioni delle Scritture e i precetti che ne derivano dovevano rappresentare un patrimonio comune che Gesù conosce, avendolo studiato, e che rilancia nel dibattito. Il vangelo di Matteo ed il Talmud hanno conservato questo ricco patrimonio.

Il detto di 6,1 costituisce un appello a non compiere la giustizia ipocritamente di fronte a tutti. Il termine “giustizia” può essere qui accostato all’espressione rabbinica “opere di misericordia” che si ritrova nel trattato m.A?ot 1,2 e che indica tutta quella gamma di azioni che “impegnano un uomo sia nella persona che nel denaro” (R. Jonà). In tal senso il passo di 6,1 si lega alle “opere belle” di 5,16, compiute perché gli uomini lodino Dio, non chi le compie, al quale, al contrario, è richiesto di abitare il nascondimento di sé, per rivelare meglio, in tal modo, come tutto il bene in lui sia opera di Dio stesso. L’esplicitazione dei versetti successivi comprende, infatti, il modo di elargire l’elemosina, di pregare e di digiunare come pure quello di rapportarsi alle ricchezze e di affidarsi fiduciosamente a Dio che provvede ad ogni esigenza, senza per questo indulgere all’ozio. La richiesta di 6,33 è, infatti, un ordine pressante a perseguire il regno di Dio e la sua giustizia, dove il verbo all’imperativo indica un’azione incessante: il precetto, in questo caso, non va compiuto in un dato luogo e in un tempo ben fissato, come potrebbe essere quello concernente il Sabato, ma sempre e dovunque. Il termine “giustizia” in 6,33 riassume, pertanto, il modo di essere e di vivere tratteggiato fin qui all’interno del discorso della montagna da Gesù. Essa si applica all’identità dei discepoli e delle folle accorse sul monte ad ascoltare Gesù (5,1). Il monte non è solo allusivo tipologicamente del Sinai, luogo della rivelazione di YHWH a Israele mediante Mosè, lì dove l’alleanza è ratificata attraverso il dono della Torah (cfr. Es 19): esso simboleggia pure Sion, ai piedi del quale le nazioni apprendono da Israele come camminare nella Torah di Dio.

Fame e sete di giustizia

Se il discorso della montagna è da intendersi come la definizione dell’identità di una comunità che segue gli insegnamenti di Gesù – un’identità che si struttura attraverso la realtà espressa dal lessema “giustizia” – le Beatitudini in esso non vanno intese “come l’espressione di un ideale religioso astratto, ma in riferimento alla persona di Gesù, in cui la volontà di Dio si manifesta pienamente”. Le Beatitudini non rappresentano uno sforzo volontaristico, un manifesto programmatico di stampo utopistico, un’esortazione a fare di più e meglio, una benedizione meritoria o la promessa di una felicità quale ricompensa: essendo al presente esse si rivelano come “affermazioni di una realtà che già esiste, ma che ha bisogno di una parola che la riveli. Attraverso le beatitudini Gesù manifesta in che senso il regno di Dio, da lui annunciato come fattosi vicino, è presente”.

In Mt 5,6 gli affamati e assetati di Lc 6,21a sono non più coloro che mancano del pane quotidiano in contrapposizione ai troppo sazi (cfr. Lc 6,25a), ma coloro che desiderano la giustizia. I verbi “aver fame” e “aver sete” al presente denotano un bisogno continuo; il verbo “saziare” nell’apodosi non sembra riferirsi alla giustizia, ma al regno di Dio. Sulla scia di diverse allusioni veterotestamentarie (cfr Is 49,9-10; Sir 24,19-22) come pure degli scritti di Qumran e di Filone Alessandrino, sembra che in questo caso il termine “giustizia” debba intendersi, ad un tempo, come il dono escatologico di Dio che è posto continuamente in essere dalla condotta di quanti si conformano alla sua volontà, seguendo gli insegnamenti di Gesù. In tal senso, per comprenderne il significato, è bene ricordarsi che la giustizia insieme al diritto, che regolano l’ordine sociale in Israele, promanano dalla santità di Dio che abita il Tempio. Il popolo di Israele è chiamato ad essere santo come il suo Signore, vivendo costantemente relazioni di giustizia che investono gli uomini ed il creato.

Perseguitati per la giustizia

L’ottava beatitudine è presente solo in Mt 5,10 e manca nel parallelo lucano. Il verbo “perseguitare” appare, oltre che in Mt 5,10, nell’ultima beatitudine di 5,11, strettamente legata alla precedente, e ancora in 5,44; 10,23a; 23,34, in contesti chiaramente ostili a quanti seguono gli insegnamenti di Gesù, ai quali, come nella prima beatitudine, è assicurato il possesso attuale del regno dei cieli (si crea un’inclusione tra la prima e l’ottava beatitudine proprio attraverso il sintagma “regno dei cieli”). Il motivo della persecuzione è la giustizia: l’espressione “per la giustizia” è parallela a “per causa mia” di 5,11, ma non equivalente.

Sembra che Mt 5,10 sia simile a 1Pt 3,14a: “E se anche doveste soffrire per la giustizia, beati voi!”, espressione che si illumina grazie al precedente v. 13 in cui i cristiani vengono rassicurati che nulla potrà far loro del male se rimangono zelanti nel bene. In 3,17 Pietro raccomanda ai cristiani: “È meglio, infatti, se così esige la volontà di Dio, soffrire facendo del bene che facendo il male”, riferendosi alle calunnie ingiuste dei persecutori. Il passo di 3,17 si lega così a 2,20b: “se facendo il bene sopporterete con pazienza la sofferenza, ciò sarà gradito davanti a Dio”.

In Mt 5,11 è detto che i cristiani sono vittime di false accuse. Mt allarga così il detto di Lc 6,22. Il participio “mentendo” specifica il “diranno ogni sorta male contro di voi per causa mia”. Dall’uso del verbo “mentire” nel vangelo di Mt (15,19; 19,18; 26,59) si comprende come il tema della falsa testimonianza preoccupi l’evangelista. In 1Pt 4,15 si invitano i cristiani ad allontanarsi da quelle sofferenze che non sono provocate dal vivere il vangelo, ma, al contrario, dall’essere “omicida o ladro o malfattore o delatore”; ancora, in 1Pt 2,12.15 l’esortazione loro rivolta è ad assumere una buona condotta e a praticare il bene per dimostrare false le accuse dei calunniatori. La pratica del bene in Mt 5,16 si esprime nelle “opere belle”. In questo caso l’accusa è falsa solo se la condotta dei cristiani è irreprensibile a motivo del loro legame con Gesù.

Essere perseguitati per la giustizia è una beatitudine per i seguaci di Gesù “solo se le accuse avanzate contro di loro sono false e solo se essi soffrono a motivo di Cristo”.

La pratica della giustizia

Legandosi strettamente alla persona e all’insegnamento di Gesù, i suoi discepoli e quanti ne accolgono l’insegnamento, che egli dona interpretando la Torah, praticano la giustizia esprimendola nelle opere belle. Si tratta di una continua tensione verso questo bene escatologico inaugurato nel presente della storia dal dono di amore di Gesù e che si traduce in una santità che diviene giusta relazione con Dio, con gli uomini, con il creato. La beatitudine che segue a chi ha fame e sete della giustizia e a chi per essa è perseguitato non è conferita solo in virtù di una fede professata o di un nome di appartenenza. La giustizia va vissuta (cfr 1Pt 2,24): questo significa abbracciare radicalmente la vita evangelica, che si traduce in un ascolto intelligente, attento e perseverante della Parola, in una preghiera umile e grata, composta di sobrietà, in una fiducia illimitata nell’agire del Padre nella storia, in un dono d’amore che, sul modello di Gesù, ama persino i nemici, che non sono più tali. Facendo la giustizia, il discepolo rivela di appartenere totalmente a Gesù, di non disporre più di se stesso in autonomia, di aver ricevuto in dono quella libertà del cuore che non si attarda sulle piccinerie. Soprattutto, egli è consapevole di non riuscire a vivere totalmente la via tracciata dall’insegnamento di Gesù, ma “non rifiuta di trovarsela scolpita addosso dalle parole dell’unico Maestro. Anche se non riesce sempre a viverla fino in fondo, essa è qualcosa per cui lui vuole vivere, è ciò di cui lui ha fame e sete e di cui vuole essere profeta”. Perseguire la giustizia ed essere perseguitati per essa è la misura dell’accoglienza del Regno di Dio manifestato in Gesù. E quest’ultima non è legata necessariamente ad un’appartenenza, che può rivelarsi formale. Il discepolo ne è avvertito dallo stesso Gesù: “In verità vi dico: I pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio. È venuto a voi Giovanni nella via della giustizia e non gli avete creduto; i pubblicani e le prostitute invece gli hanno creduto. Voi, al contrario, pur avendo visto queste cose, non vi siete nemmeno pentiti per credergli” (Mt 21,31b-32). I pubblicani sono disprezzati a motivo della loro avidità, essendo esattori delle imposte e agendo come usurai; le prostitute già dal loro nome sono etichettate come strumenti, non come persone. Con essi siede Gesù a mensa dopo la chiamata di Matteo (cfr. Mt 9,9-13). I farisei, vedendo Gesù banchettare con loro, chiedono ai suoi discepoli, non a lui, il perché egli sieda con uomini e donne ritualmente impuri, avendo egli stesso affermato di non voler abrogare le prescrizioni della Torah. Gesù risponde loro in modo diretto, non attraverso i discepoli, ricordando il detto del profeta Osea secondo il quale Dio vuole la misericordia e non il sacrificio (cfr. Os 6,6). E aggiunge di non essere venuto per chiamare dei giusti, ma dei peccatori. Questo accade perché la giustizia che non è secondo l’insegnamento di Gesù si tramuta in presunzione, in prestazione volontaristica e meritoria: essa – insegna lo stesso Gesù – ha già ricevuto la sua ricompensa (cfr Mt 6,2b.5b.16b). La giustizia di pubblicani e peccatori è quella di non avere più nulla da difendere e nulla da dimostrare. Raggiunti dalla giustizia di Dio in Gesù che li rende perfetti come il Padre (dove la perfezione, qui, è sinonimo di giustizia: cfr Mt 5,48) essi hanno ormai e solamente tutto da donare. Nel paradosso scandaloso di essere pubblicani e prostitute e, allo stesso, discepoli del Regno, testimoniano di quella giustizia che è dono dall’alto e che raggiunge coloro che sono spogli di sé, ricchi del loro peccato, della loro umile consapevolezza del loro essere, pienamente disponibili all’azione dell’amore di Dio in loro attraverso Gesù. Costoro, nel silenzio, a volte tra giudizi ed emarginazione, camminano sulla via della giustizia, attuando le opere belle che si esprimono in quella diaconia all’uomo sofferente, la quale sarà il metro di giudizio nel Regno (cfr. Mt 25,44).