Club di Ferrara. Incontro sui migranti
Di migranti si è parlato nel corso della più recente riunione del Serra club Ferrara. Lo si è fatto attraverso la testimonianza di cinque persone che dai loro paesi sono giunti, nei modi più diversi, in Italia dove hanno iniziato a lavorare e a inserirsi, all’inizio con difficoltà e poi con soddisfazione. C’è chi si è sposato e ha avuto figli che vanno a scuola e che sono (cittadinanza o no, piaccia o no) italiani.
Nell’introduzione alla serata, che si è svolta come di consueto in Seminario, il presidente del club Alberto Lazzarini ha fotografato la situazione nella nostra provincia dove gli stranieri sono quasi 35.000 e rappresentano il 10,2% della popolazione. La nazionalità più diffusa è quella romena (19,1%) seguita marocchini, ucraini, albanesi e moldavi. Il 10,3% delle imprese (dati Camera di commercio) sono straniere, in costante crescita, e sono le uniche ad aumentare, insieme alle imprese giovani.
Di testimonianze, si accennava. Invitati da don Domenico Bedin presidente dell’Associazione Viale K ma notoriamente attivo anche in altre realtà dell’immigrazione del volontariato, si sono susseguiti al microfono un immigrato congolese, una ucraina, e tre albanesi di cui una coppia: cinque storie l’una totalmente diversa dall’altra ma tutte accomunate dalla volontà di trovare un futuro migliore rispetto a quello che si prospettava nella loro patria. E tutti uniti dal sacrificio di andarsene dai propri affetti, dalle proprie abitudini, dalla propria realtà: non poco.
La collaboratrice domestica ucraina da oltre vent’anni a Ferrara ha parlato del suo rapporto con gli anziani, non di rado malati di alzheimer, della sofferenza per la loro situazione e l’impossibilità molto spesso di comunicare. Il lavoro è comunque lavoro e per lei è importante, anzi fondamentale, soprattutto oggi con la crisi in patria dovuta dall’invasione russa che ha stravolto tutto, compresa la certezza degli affetti, visto che teme – lo ha confessato – che figlio e nipote possano essere chiamati alle armi. C’è poi chi ce la fa grazie anzitutto alla fantastica rete della comunità locale che accoglie, soprattutto quella legata alla Chiesa: è il caso di un medico albanese, specializzata e con alte responsabilità lavorative nel nostro Sant’Anna, sempre sostenuta da don Bedin che l’ha fatta studiare consentendole una carriera lavorativa; ora è sposata, ha figli, tutti ben inseriti. E ancora: un congolese giunto in città dopo mille peripezie legate agli sconvolgimenti politici del suo paese; da anni dirige un dormitorio della città; a sua volta è sposato e ha figli. Così come una coppia albanese: lui (arrivò con un gommone) lavora in un vivaio, lei fa lavori domestici. Tutti parlano un italiano quasi perfetto. “Gli immigrati – ha osservato don Bendin – iniziarono ad arrivare 30 anni fa. La definirono un’ “invasione”. Non fu capita la portata del fenomeno e nemmeno la sua capacità di cambiare la nostra cultura”. Senza queste persone chi avrebbe aiutato gli anziani a casa loro (800.000 badanti) o avrebbe lavorato nelle fabbriche, nelle fonderie o nei campi?
“Queste persone, ha aggiunto don Bedin, hanno dei volti, dei nomi, un futuro. Noi cerchiamo di aiutarli, di facilitarne l’integrazione. Ogni estate, prima dell’inizio delle scuole 100-120 ragazzini frequentano la nostra scuola per imparare un po’ di italiano”. Però “C’è un clima politico ostile e ipocrita: sfruttiamo la loro presenza e poi non attuiamo politiche di reale accoglienza. Una volta giunti in Italia gli immigrati devono attendere 3-5, anche sette anni, per ricevere un documento che consenta loro di lavorare in regola. Occorrono, appunto, regole certe. Le ingiustizie non fanno bene nemmeno agli italiani. La frase “prima gli italiani” è oscena. Andrebbe attuato lo “ius soli” per consentire ai bambini di diventare presto italiani a tutti gli effetti: oggi devono attendere il compimento dei 18 anni…”