La spiritualità della vita consacrata e le esperienze di servizio.

Il dono di una porta che si apre: vocazione alla vita eterna

Pablo Domínguez Prieto

Il dono di una porta che si apre: vocazione alla vita eterna

Il Moncayo è un rilievo del “Sistema Iberico”, la catena montuosa che corre tra l’Andalusia e la Castiglia e León: con i suoi oltre 2.300 metri si staglia da lontano e, per l’altitudine, presenta livree diverse al variare delle stagioni. In inverno la sua ampia cima innevata è inconfondibile mentre, in quota, il ghiaccio è molto e richiede esperienza agli alpinisti che ne tentano la vetta.

Non troppo lontano dal Moncayo si trova, a Tulebras, un antico monastero con radici nel XII secolo e un’ininterrotta storia di stabilitas orante dal 1156. Nel febbraio 2009 vi arriva un sacerdote quarantaduenne preceduto da molti titoli accademici, tra cui un dottorato in Filosofia all’Università Complutense di Madrid e il ruolo di (giovanissimo!) decano dell’Istituto teologico madrileno di San Damaso: Pablo Domínguez Prieto. Esperto di Logica e Filosofia della Scienza, con studi anche in un’università laica (sempre in ascolto delle domande e delle polemiche dell’uomo lontano da Dio), Pablo è preceduto soprattutto dalla fama di sacerdote integro che vive con il Cuore di Cristo nel cuore del mondo, «uomo completo, tutto d’un pezzo», con un’«allegria sicura, nata dal sapere Chi è colui che ti cerca, Colui che ti ama».

Le monache trappiste lo hanno invitato a predicare gli Esercizi spirituali ed egli vi imprime un preciso ritmo: «Eviteremo qualsiasi teorizzazione, qualsiasi espressione che sia puramente intellettuale, anche se useremo la ragione». «L’esperienza di Dio nasce» infatti «dal nostro essere, dalla totalità della persona».

In quei giorni, affidando gli Esercizi alla materna intercessione di Maria, commentando la Parola, avvalendosi di storie di vita – tutte serissime, alcune velate di folgorante comicità (dal bambino che aveva rischiato di cadere dalla sedia per “fare posto a Dio”, all’altro che propose di “aprire la scatola” cioè il Tabernacolo, all’altro ancora che riconobbe Giovanni Paolo II quando riuscì ad andare a sciare in incognito, e fu messo a tacere nel panico generale) – Pablo Domínguez Prieto conduce le consacrate a un rinnovamento radicale dello sguardo su di sé, nella contemplazione stupita dell’Amore immenso di Dio, della sua bontà, della Sua Presenza nel quotidiano.

In quei giorni del febbraio 2009, pare che egli voglia ripercorrere ciò dinanzi a cui il Cristianesimo comincia a essere una buona notizia perché smette di essere parola edulcorata per anime in cerca di facile rassicurazione: insiste per esempio sulla libertà, inoltre commenta il brano evangelico delle tentazioni… «La cosa peggiore che possiamo fare nella vita cristiana – spiega – è “metaforizzare” le cose, non renderci conto che si tratta di realtà»; «Questo è il problema: pensare che la Croce sia una specie di genere letterario […]. Ma non è così».

Insiste allora su ciò che si vorrebbe mettere per ultimo, inverte l’ordine e obbliga ad affrontare quel che fa più paura: la vita cristiana infatti «non è facile […]; ha le croci, ma è bellissima». Il punto sta nel prenderla sul serio, nel viverla in ogni aspetto. Don Pablo dice: «Ogni dettaglio è meraviglia». Ammonisce a non abituarsi alle cose sante, a ricordarsi che «fare un viaggio da soli è piuttosto noioso, mentre farlo con una persona sorprendente […] è meraviglioso. Penserai sempre: “Che cosa accadrà oggi?”»: ed è questo che avviene con Dio.

Dedica uno spazio anche alla riflessione sulla morte, quell’argomento così serio che spesso se ne scherza per esorcizzarlo, mentre vi si dovrebbe familiarizzare.

Le trappiste ricordano come agli Esercizi don Pablo ne abbia parlato in modo nuovo: «La morte non è un tema. La morte è la porta e la cosa importante è quello che c’è oltre: la vita eterna». Importante è il regalo nascosto dietro, anche se aprire quella porta accade in modi diversi, alcuni più dolorosi di altri: solo una vita che desideri ardentemente il dono dietro la porta e si disponga ad accoglierlo diventa piena nell’oggi, senza sciupare un solo istante.

Forse per questo la vita di don Pablo è stata tutta una corsa, tutta un camminare senza rinviare né rinunciare, vivendo un grande “sì”, predicando il Vangelo senza interruzione, impegnandosi nella pastorale, attuando la frase pronunciata il giorno della sua ordinazione sacerdotale: «Io non mi appartengo più». Allora anche la presenza alla Trappa di Tulebras non può essere sciupata: dà lì il Moncayo – l’ultima vetta che gli manca di salire nell’area – è troppo vicino per rinviarne l’ascesa.

Così il 15 febbraio mattina, recitata una parte del Breviario con la comunità monastica, si raccoglie in preghiera silenziosa. Salirà sulla vetta: ad accompagnarlo la consacrata laica, amica, alpinista, medico, docente universitaria Sara de Jesús Gómez, quel giorno l’unica presente di un gruppo con cui condivideva la passione per la montagna. Chiede alle Trappiste il Pane e il Vino per celebrare la Messa in quota, come era solito fare. C’è ancora il tempo di scherzare, di qualche saluto: Pablo adora il cioccolato e le suore non possono certo farglielo mancare. A una di loro raccomanda di pregare per lui e lei lo farà, rasserenandosi solo a sera quando dice: «Sarà a casa, non gli è successo nulla». Ma Pablo non era tornato a casa…: aveva “aperto la porta”.

Sul Moncayo, raggiunta la vetta, l’avviso alla famiglia era stata la sua ultima telefonata. La Santa Messa, senz’altro celebrata, l’ultimo atto essenziale della sua vita. Con Sara – come dirà l’esame medico obiettivo – era precipitato, sul duro ghiaccio. Molto probabilmente la prima a scivolare mentre camminava in un tratto esposto era stata lei: don Pablo è verosimile abbia provato ad aiutare, senza farcela né per lei né per sé. Una persona lo rivedrà col volto sereno e pieno di bellezza, sperimentando senso di reverenza verso quel corpo che era stato tempio dello Spirito Santo e in cui tutto parlava della consacrazione.

Il giorno prima, predicando gli Esercizi, Pablo aveva detto: «Di solito, nei passi più difficili, il primo è il più debole. […] il più umile va per ultimo […] perché se uno inciampa, immediatamente deve aggrapparsi al suolo e così si salva. Per questo motivo, nei passi più difficili, si cambia la direzione della cordata, e si mette il più forte per ultimo e il più debole – o perlomeno il meno esperto – per primo». «Nella vita come nella cordata, gli ultimi posti sono i più importanti. In effetti, è nostro Signore Gesù Cristo che ci assicura; per questo procediamo tranquilli. Ma insieme a Lui c’è la Vergine Maria».

Per tutta la sua vita sacerdotale, egli aveva inteso portare le anime con ogni mezzo – la preghiera e lo studio, il calore umano e la simpatia – al dolce vincolo di quell’unica cordata dove si è al sicuro, perché Gesù e Maria, all’ultimo posto, regalano la libertà del cammino e la certezza di non essere mai soli.

Al funerale partecipano, con 3.000 fedeli, ben 26 vescovi. Dall’ultimo posto, oggi don Pablo Domínguez indica la strada che conduce “alla vetta”: l’incontro con Gesù.

 

 

[…] ogni giorno veniamo indirizzati dallo Spirito
in situazioni molto diverse da quelle che sceglieremmo. […].
Ogni giorno della nostra vita significa decidere di dire sì a Dio,
scegliere Lui in differenti circostanze.

 

Un monastero è il cuore dell’evangelizzazione […].
Non è necessario vedere i frutti perché questi esistano.

 

Dagli Esercizi spirituali predicati da don Pablo
alle Trappiste poco prima di morire

 

 

Pablo Domínguez Prieto nasce a Madrid il 3 luglio 1966 in una famiglia aperta al dono della vita e della fede. Plasmato sin da bambino dall’esperienza di Dio, è ordinato sacerdote il 20 aprile 1991 a 24 anni. Filosofo e teologo, decano del Centro di studi teologici “San Damaso” di Madrid, Pablo è anzitutto un prete, uomo di relazione con Dio e i fratelli. Appassionato di montagna, muore sul Moncayo il 15 febbraio 2009 a 42 anni. Oggi è ricordato come sacerdote esemplare, vero amico, testimone di eccezionale valore di Cristo e del suo vangelo. Per conoscerlo: Testamento spirituale. Fino alla cima (San Paolo, Cinisello Balsamo [MI] 2014); il DVD La última cima (a cura di Juan Manuel Cotelo). Numerosi i filmati disponibili in rete. Emilia Flocchini ne parla su santiebeati.it.

 

DAL SITO    https://rivistavocazioni.chiesacattolica.it/2023/04/10

 

La Comunità monastica di Siloe

 

Chi siamo e la nostra storia

Siamo una piccola comunità di monaci (attualmente otto) che seguono la Regola di San Benedetto, giunti nella Diocesi di Grosseto nel 1996.

Nel 1997 la comunità è stata eretta canonicamente come Associazione pubblica di fedeli dall’allora vescovo mons. Giacomo Babini.

L’arrivo in questa terra di Maremma è stato del tutto fortuito o meglio provvidenziale: una benefattrice è venuta a conoscenza che stavamo cercando un luogo dove poter vivere la nostra esperienza monastica e ha donato per questo scopo un proprio terreno, chiamato Le Piscine, nella località di Sasso d’Ombrone.

Da tale nome, che indica la presenza di una sorgente d’acqua, è nato anche il nome della Comunità, con il riferimento alla piscina di Siloe a Gerusalemme, menzionata sia nell’Antico che nel Nuovo Testamento.

L’acqua di tale piscina, che assicurava il rifornimento idrico alla città anche in caso di assedio grazie ad un canale fatto scavare nella roccia dal re Ezechia prima del 701 a.C., era considerata un segno della protezione di Dio sulla città; e così è stato per noi che abbiamo ricevuto provvidenzialmente questa donazione.

È così iniziato il cammino di questa nostra piccola comunità che si inserisce nel solco millenario della tradizione monastica benedettina e che cerca di cogliere quegli elementi spirituali che possono essere più significativi per gli uomini e le donne del nostro tempo. In effetti, la spiritualità monastica, ancorata saldamente alla ‘ricerca di Dio’, ha espresso nei secoli e nei diversi contesti sociali e culturali varie forme di vita comunitaria e fecondato positivamente le realtà umane.

Dalla Regola di San Benedetto, ci vengono due indicazioni che sinteticamente possono riassumere il nostro cammino e che ne costituiscono i poli: l’interiorità e la comunione fraterna. Significativamente, la Regola inizia con un tu «Ascolta o figlio gli insegnamenti… » (prol. 1) e termina con il noi «Ci conduca tutti alla vita eterna…» (cap. 73).

Il monaco, oltre ad avere la fondamentale relazione con Dio nella preghiera personale e comunitaria, vive nel monastero come avvolto da un fascio di relazioni orizzontali che si esplicitano in precisi atteggiamenti verso l’altro: ascolto, obbedienza reciproca, stima, aiuto, disponibilità, affetto disinteressato (cfr cap. 72 della Regola).

Tutto questo può diventare una precisa proposta per l’uomo di oggi sempre più individualista e quasi incapace di quelle relazioni profonde, vere e vivificanti che ci costituiscono come persone. Protagonista di questo cammino di ‘umanizzazione’ è ogni singolo monaco che parte non già da una situazione ottimale ma da una condizione di limite e di peccato: San Benedetto più volte nella Regola parla dei monaci come pecore malate, bisognose delle cure dell’abate e non teme di mettere in evidenza le loro mancanze. Assumere la propria condizione di fragilità è quindi il primo passo del lungo cammino che porta alla libertà dei figli di Dio. La conoscenza di sé è quindi uno dei tratti più caratteristici della spiritualità monastica che vede nell’interiorità la dimensione costitutiva dell’esperienza di fede. Interiorità che significa liberarsi dalle sovrastrutture, sfuggire dalla tirannia della superficialità e dell’apparenza, passare dal superfluo all’essenziale e dalle molte voci al silenzio, diventare capaci di vigilanza per vivere in pienezza ogni momento e non subire passivamente gli eventi ascoltando la voce dello Spirito.

 Al servizio della Chiesa

Questi percorsi spirituali diventano quindi una proposta che si concretizza nell’ospitalità. Siamo infatti lieti di condividere la nostra esperienza con chi desidera trascorrere qualche giorno nel nostro monastero, unendosi alla nostra preghiera comunitaria, in un clima di sobrietà e silenzio e con la possibilità di colloqui e accompagnamento spirituale.

Sin dal 1996, i monaci hanno anche la cura di tre piccole parrocchie oltre a diversi incarichi a livello diocesano.

Ora et labora

La vita nel monastero si struttura sui due pilastri tradizionali: preghiera e lavoro. La Liturgia delle Ore viene celebrata comunitariamente e ciascuno definisce i propri tempi per la preghiera personale.

Per il sostentamento, i monaci si occupano direttamente della conduzione di una piccola azienda agricola biologica con la coltivazione di olivi (2300 piante), vite, peperoncino, zafferano, legumi e cereali. In questi anni, molte energie sono state impegnate per il recupero di terreni abbandonati e ora tornati in produzione. Nei nostri campi, è stato realizzato anche il Giardino laudato si’ con un percorso adatto a catechesi itineranti oltre che per gustare la bellezza del creato.

Il nuovo monastero

Da secoli, la Diocesi di Grosseto era priva di una presenza monastica e non esistono neppure antiche strutture da restaurare per la vita di una comunità. Sin da subito, è nato quindi il progetto di costruire un nuovo monastero.

Questa ‘avventura’ è iniziata nel 2000 con la trasformazione di un vecchio ovile nella Cappella del Pellegrino dedicata alla SS. Trinità. Nel 2002 sono iniziati i lavori per la costruzione di un primo lotto, lavori terminati nel 2005 con l’insediamento dei monaci.

Il progetto del monastero riprende la pianta delle abbazie cistercensi, reinterpreta con linee architettoniche contemporanee e con i criteri della bioarchitettura, con particolare attenzione alle fonti energetiche rinnovabili.

Successivamente sono stati realizzati il lato sud con una sala conferenza e la biblioteca e l’Eremo dei Santi: quattro celle per l’ospitalità.

Un ulteriore passo, fondamentale e impegnativo, è la realizzazione della chiesa e l’ultimazione del monastero con altri spazi per l’ospitalità: solo l’aiuto della Provvidenza con il sostegno di tanti benefattori renderà possibile l’ultimazione di questa opera a gloria di Dio.

La Comunità dei Figli di Dio

La Comunità dei figli di Dio ha come carisma specifico quello di vivere una vita cristiana all’insegna di un monachesimo interiorizzato aperto a tutti, teso al riconoscimento del primato di Dio, volto all’accoglienza di chiunque si senta chiamato a tendere alla pienezza della carità.

La Comunità dei figli di Dio (CFD), fondata dal sacerdote servo di Dio Divo Barsotti, [Palaia (PI), 25 aprile 1914 – Settignano, (FI) 15 febbraio 2006] è un’Associazione pubblica di fedeli che desiderano vivere nel mondo il mistero dell’adozione filiale, avendo come strumenti quelli che nella Chiesa sono da sempre i mezzi propri della spiritualità monastica: ascolto della Parola di Dio, vita liturgica e sacramentale, preghiera del cuore, esercizio della carità fraterna. Nel mondo: i membri della Comunità non si ritirano negli eremi, non vivono ordinariamente in piena solitudine, ma vivono da monaci nel mondo, tra gli uomini e nelle strutture sociali. Lavorano negli uffici, nelle scuole, nei posti pubblici, nelle case; sono uomini e donne, giovani e anziani, sposati e non sposati: uniti in un’unica famiglia mediante una consacrazione, grazie alla quale si donano e si consegnano al Verbo di Dio, alla Vergine Madre e alla Chiesa.

 

Cenni storici – La Comunità è nata negli anni 1947-48 per opera di don Divo Barsotti. Arrivato a Firenze dalla diocesi di San Miniato nel 1945 e accolto dal Cardinal Elia Dalla Costa su sollecitazione di Giorgio La Pira, viveva presso un convento di suore vicino a Porta Romana. Fu un piccolo gruppetto di donne, già legate tra loro da un forte legame religioso, che chiese a don Divo di essere guidato nel cammino spirituale. Egli accettò la proposta. Il Padre – da allora fu sempre chiamato così – dette presto a loro un programma di vita ben preciso: celebrazione quotidiana della liturgia delle Ore, impegno a custodire il sentimento della Divina Presenza pur nel consueto scorrere della vita di ogni giorno, studio e meditazione della Sacra Scrittura e dei testi della grande Tradizione cristiana orientale e occidentale, incontro di gruppo tutte le settimane e una giornata al mese di Ritiro. Barsotti sentiva fortemente la necessità che nella Chiesa si risvegliasse la sensibilità al primato dei valori contemplativi come parte integrante della vocazione del battezzato, in qualunque stato di vita si trovasse a vivere. Di qui anche il nome scelto da don Divo per la famiglia religiosa che gli si andava formando intorno: Comunità dei figli di Dio, il nome stesso della Chiesa. Pian piano la Comunità andò crescendo e negli anni dal 1950 al 1960 si formarono gruppi in varie parti d’Italia: a Viareggio, Venezia, Palermo, Modena, Napoli… Anche la struttura della Comunità si andò pian piano delineando, fino alla sua ultima definizione, che si ebbe quando all’interno della Comunità si realizzò la ‘vita comune’, e si aprirono alcune case, maschili e femminili, con una impostazione di vita molto vicina alla disciplina religiosa in senso classico. La Comunità dei figli di Dio si costituì allora come “famiglia religiosa” pur comprendendo al suo interno tutti i diversi stati di vita; è la sua struttura attuale, oggi che la CFD si è diffusa anche all’estero (Gran Bretagna) fino in Africa (Benin), in America latina (Colombia), in Asia (Sri Lanka) e in Oceania (Australia).

Il nome – La Chiesa è già la Comunità dei figli di Dio! Il nostro nome non indica quindi nulla di specifico… «Non vogliamo nulla di specifico perché nella nostra vocazione è compresa e realizzata ogni vocazione cristiana». Il nostro nome indica solo il nostro desiderio di essere più consapevoli di quello che il battesimo ha operato nella nostra vita. «Chiunque è battezzato è figlio di Dio e fa parte della Chiesa… ma vive anche come figlio di Dio?». (D.Barsotti)

Vivere da figli – Noi ci richiamiamo al battesimo: vogliamo impegnarci seriamente e con costanza nel realizzare quanto il battesimo è in potenza, vogliamo vivere radicalmente la nostra vocazione cristiana: «vivere nel mondo il mistero dell’adozione filiale nella perfezione della carità”».

Altra è la natura, altro è il vivere secondo la natura che un essere riceve con la sua nascita… Quanto più è perfetta una natura, tanto più lungo è il tempo che è necessario perché la natura realizzi ogni sua potenzialità”. (D.Barsotti)

 

Struttura – Questa la struttura in quattro Rami:

– Laici che vivono nel mondo, sposati o non sposati, i quali, dopo un congruo periodo di preparazione, si consacrano a Dio nella Comunità. È questo il I Ramo della Comunità.

– Sposi o coppie di sposi che desiderano impegnarsi a vivere in famiglia seguendo i dettami dei consigli evangelici e quindi professando i voti di povertà, castità coniugale e obbedienza. È il II Ramo.

– Chi, pur restando a vivere nel mondo, vuole vivere la sua donazione a Dio nello stato verginale può professare i voti religiosi di povertà, castità piena e obbedienza (III Ramo).

– Infine il IV Ramo comporta la vita religiosa nelle case di vita comune, con fratelli e sorelle che lasciano tutto per vivere in piccole fraternità la cui impostazione di vita è tipicamente monastica: preghiera, silenzio, lavoro, studio.

Anche i sacerdoti diocesani possono far parte della Comunità, mantenendo la propria identità secolare e collocandosi o nel primo o nel terzo ramo.

Spiritualità La spiritualità della CFD vuole essere una spiritualità monastica. Soprattutto nell’Oriente cristiano lo stato di vita monastico è inteso come la realizzazione piena della condizione di grazia del battezzato. Essere monaci vuol dire vivere come specifica vocazione la tensione alla piena realizzazione della vocazione battesimale, comune a tutti. Su questa base don Divo Barsotti, ispirandosi alla spiritualità orientale e specificatamente russa, ha ritenuto possibile proporre al semplice battezzato, pur immerso nelle realtà del mondo, l’ideale monastico, nella dimensione di un ‘monachesimo del cuore’, un ‘monachesimo interiorizzato’. Per questo i mezzi che la Comunità offre per rispondere a questa specifica vocazione sono quelli propri della grande tradizione monastica: la vita liturgica e sacramentale, la preghiera e l’ascolto della Parola di Dio, la vita fraterna. Secondo dei programmi stabiliti, i membri della Comunità meditano ogni mese un libro della Sacra Scrittura in modo da leggere la Bibbia in un ciclo sessennale; frequentano per quanto possibile la vita sacramentale e liturgica della Chiesa; pregano ogni giorno con la liturgia delle Ore, almeno in alcune sue parti. Nel corso della settimana i consacrati si incontrano in piccoli gruppi; incontri in cui si prega, si fa formazione biblica, si assimila la spiritualità del Fondatore, ci si confronta e ci si aiuta nell’entrare sempre più nel cuore della vita spirituale. Ogni mese poi c’è un incontro allargato tra i vari gruppi esistenti nella stessa zona (Adunanza) e una mezza giornata di Ritiro, privilegiando la dimensione religiosa del silenzio. Durante l’anno infine si organizzano diversi corsi di Esercizi spirituali di cinque giorni in varie regioni d’Italia, e un pellegrinaggio per la conoscenza di luoghi significativi per la nostra spiritualità.

Siamo monaci – In che senso?

Siamo monaci, cioè uomini e donne «ordinati tutti all’ascolto della Parola di Dio e alla lode di Dio», impegnati a trasformarci in preghiera, a divenire una preghiera vivente e incessante (cf. 1Ts 5,17; Lc 18,1). «Il nostro primo impegno è l’ascolto della Parola di Dio… e nella lode divina, nella preghiera del giorno, noi offriamo alla Chiesa il nostro cuore e le nostre labbra perché la Chiesa intera preghi attraverso di noi» e facciamo nostri i bisogni di tutta l’umanità in un’intercessione universale e costante. Siamo chiamati «a divenire sacramento vivente della presenza viva di Dio. Per questo come Gesù dobbiamo vivere nel seno del Padre e rimanere nel mondo in mezzo ai fratelli. Il nostro monastero è il mondo, la nostra vita deve essere la vita stessa di Gesù». (D.Barsotti)

Siamo monaci perché ci ispiriamo al monachesimo primitivo, non per la fuga dal mondo e per le austerità della vita, «ma per una certa libertà e per un più diretto ordinarsi dell’anima a Dio. La nostra vocazione altro non è che l’impegno di vivere il nostro battesimo… Siamo monaci perché non vogliamo dimenticarci che Dio deve essere il primo amato, che Dio deve essere la meta ultima del nostro cammino. Il nostro deve essere un monachesimo interiorizzato» che si realizzerà «se vivremo una unione sempre più perfetta con Dio». «Saremo veramente monaci se tutta la nostra vita sarà una sola preghiera».

In fondo il nostro essere monaci si riassume molto bene nel “Cerco Dio solo” che pronunciamo nel rito della consacrazione (cf. Regola di San Benedetto 58).

Società di Servizio Sociale Missionario. Chiamati alla meravigliosa avventura dell’amore che si fa servizio

Carisma e Missione

I carismi sono doni dello Spirito Santo, dati per l’utilità del popolo di Dio, a vantaggio della santità della Chiesa e della sua missione (cf. Papa Francesco, Udienza generale, 6 novembre 2013). Vi sono diversità di carismi, ma uno solo è lo Spirito … uno solo è Dio, che opera tutto in tutti. E a ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per l’utilità comune (1 Cor 12, 4-7).

Da tali asserzioni si evince che:

– il carisma è dono gratuito dello Spirito di Dio; espressione della relazione che Egli desidera instaurare con il ricevente; energia vitale che delinea il volto e la missione particolare di chi lo accoglie;

– la diversità dei carismi, tutti originati dal medesimo Spirito, è finalizzata all’utilità comune, “a rendere bella e attrezzata la Chiesa, nel tempo e nello spazio, per ogni opera buona” (cf. LG 12). Ognuno, quindi, riceve un dono specifico per cooperare, in sinergia con gli altri, a far crescere e a edificare il Corpo di Cristo nella carità (cf. Ef 4, 11-13);

– nessun destinatario può, dunque, ostentare vanto per il “dono” ricevuto, ma in tutta verità, nella consapevolezza di portare il tesoro in un vaso di creta, (cf. 2 Cor 4,7), può solamente rendere grazie e averne cura perché il dono sia utilizzato a vantaggio della santità e della missione della Chiesa.

Tale premessa la ritengo opportuna per sottolineare la sproporzione esistente tra il Donante e il ricevente, tra il valore del dono e la precarietà di chi lo riceve; ma il Donante – al quale niente è impossibile (cf. Lc 1,37) – non si lascia bloccare dal limite e dalla sproporzione, anzi, interpella il ricevente chiamandolo a lavorare con Lui e per Lui, nella Sua Vigna.

La persona chiamata, consapevole di non poter rispondere con le sue sole forze alla chiamata e, nello stesso tempo, certa della fedeltà operosa di Colui che la interpella, può, solamente affidandosi, rispondere: “Eccomi”.

Il Fondatore e il carisma del Servizio Sociale Missionario 

La chiamata alla sequela di Cristo con il dono del Servizio Sociale Missionario ci invita a partecipare alla Diaconia di Cristo, in una vita totalmente consacrata a Lui, servendo i poveri, i sofferenti, i lavoratori, con un “servizio sociale” che sappia utilizzare, in base ai segni dei tempi, i buoni frutti della scienza e della tecnica, per la promozione della giustizia nella carità.

È un dono che la Famiglia Missionaria ha ricevuto tramite la mediazione del Fondatore: il Card. E. Ruffini, Arcivescovo di Palermo dal 1946 al 1967.

Egli, arrivato a Palermo il 31 marzo 1946, di fronte alle rovine e alla grande povertà di una città distrutta dopo la II guerra mondiale, così si espresse: “Mi sono reso conto delle vostre necessità, dei vostri bisogni e sin da questo momento partecipo nell’intimo dell’animo a tutte le vostre necessità, ai vostri bisogni, e sarò con voi per migliorare le vostre condizioni …. Voglio essere solidale con tutti coloro che invocano giustizia: voglio essere difensore di quelli che, comunque, fossero oppressi, voglio essere il sostegno di tutti i cadenti (Dal Discorso di Ruffini ai Palermitani il 31.III.1946 – pubblicato da “La Sicilia del Popolo” del 2.4.1946).    

Il Cardinale dinanzi ad uno scenario di distruzione e a un popolo ricco di attese, di speranze, ma nello stesso tempo avvilito dalla povertà e dalla sofferenza, annunciò il Vangelo della carità adoperandosi per la liberazione e il riscatto delle persone da varie forme di oppressione, con la promozione e l’istituzione di diverse opere sociali rispettose delle esigenze e della dignità delle persone, esprimendo con le opere la sua grande fede (cf. Gc 2,18).

“Non si può avere pace, scrisse il Cardinale all’inizio del suo mandato, finché si sa che nella parrocchia vi sono poveri senza pane e senza tetto. … Sarebbe per noi vergogna continuare a vivere in dimore comode, se non provvedessimo a chi non ha dove poggiare il capo” (Card. E. Ruffini, Discorso al clero e ai religiosi, il 24.IV.1948, in “Voce Cattolica”, 2.V.1948).

L’obbiettivo dell’Arcivescovo era di rispondere senza ritardo al reale bisogno immediato, ma soprattutto, di mirare, nel rispetto della dignità della persona, allo sviluppo, alla crescita umana e sociale, desiderando e facilitando percorsi di inserimento sociale dei cittadini più poveri, offrendo loro pari opportunità e condizioni favorevoli.

Il Cardinale ha guardato al territorio come tessuto sociale, ambito di relazioni e di legami, ove la persona ha una storia, una rete di relazioni e ha desiderato creare, a livello di quartiere – in particolare nelle periferie – un polo aggregante e socializzante per favorire la crescita delle persone, delle famiglie, dei gruppi, della comunità nel suo insieme: Centro di Servizio Sociale con Ambulatorio medico, Scuola materna ed elementare, Corsi di alfabetizzazione per adulti, Corsi di qualificazione professionale maschili e femminili.

 

L’Arcivescovo ha promosso la realizzazione di Servizi non secondo standard già predefiniti, ma a partire dalle persone e dalla “definizione” del loro bisogno (cf. Villaggio Ospitalità per coppie di anziani); ha valorizzato il criterio della “temporaneità”, evitando così la stigmatizzazione della persona e la cronicità del bisogno (cf. Casa della Gioia, per bambini gracili e predisposti alla tbc), ha posto attenzione privilegiata alla famiglia, mediante la sicurezza di una casa, il conseguimento di una qualificazione lavorativa, l’opportunità di poter fruire nel territorio di servizi socio-sanitari-educativi- religiosi.

Egli era convinto che le scienze umane e sociali e il metodo del Servizio Sociale potessero offrire risposte sociali più idonee: la lettura della realtà, la programmazione dell’intervento con la partecipazione attiva degli stessi fruitori dei servizi, l’impegno per la promozione di Servizi che tutelassero e rispettassero la dignità di tutti, con attenzione privilegiata ai più poveri, era aderente alla sua visione di persona, soggetto di diritti e di doveri, aperto alla socialità, solidarietà, responsabilità, libertà. Fondò, a tal fine, la Scuola Universitaria di Servizio Sociale “S. Silvia”.

Una collaborazione particolarmente significativa l’ebbe da un piccolo gruppo di persone, alcune delle quali erano state da lui guidate spiritualmente e incoraggiate al servizio dei poveri, dei sofferenti e dei lavoratori fin dagli anni del suo ministero romano.

A Palermo il gruppo andò, via via, crescendo e il Card. Ruffini nel 1954, in risposta “ad una ispirazione divina”, come Egli stesso diceva, pensò di erigere canonicamente un Istituto col nome Assistenti Sociali Missionarie, oggi Società Apostolica di Servizio Sociale Missionario.

Società Apostolica che, come ci disse Paolo VI nell’Udienza del 4.01.1966, “non si propone soltanto il fine, pur altamente apprezzabile, di collaborare al progresso civile del mondo, ma quello di servire Gesù nelle opere e nelle persone che incontra [……] La Chiesa vi dice: col servizio date testimonianza di ciò che può la carità e fate trasparire la vostra fede e il vostro amore a Cristo”.

Missione e Spiritualità

 La Missione che scaturisce dal carisma, espresso nel “Veritatem faciente in caritate” (Ef 4,16), ci chiama a rendere manifesta nel servizio la verità evangelica perché ogni realtà umana e sociale cresca in Cristo, secondo il progetto del Padre; e ci invia a servire, ad amare come e perché il Signore ci ha amato, quanti:

  1. – si trovano in situazioni di povertà che ostacolano o ledono lo sviluppo integrale della persona;
  2. – soffrono in diverse e molteplici forme;
  3. – nel mondo del lavoro, lesi nella loro dignità, interpellano la Chiesa e la società.

Il dono – compito affidatoci ci chiede di:

  • vivere le relazioni secondo la logica della fraternità fondata sulla paternità di Dio;
  • farci prossimo, con carità sollecita, ai tanti crocifissi della storia, perché ognuno abbia vita e vita degna;
  • adoperarci per progetti di solidarietà; per processi di nuove forme di convivialità nel territorio; per la promozione e l’incremento di percorsi di giustizia sociale e di liberazione da strutture ingiuste; per l’assunzione, da parte di tutti, del dovere di concorrere al bene comune, a partire dal privilegio del povero, “perché tutti siamo veramente responsabili di tutti” (cf. Sollicitudo Rei Socialis, 38);
  • essere grati perché veniamo “beneficati” dal fratello che “aiutiamo”. Siamo loro debitori di quanto ci donano e ci offrono per la nostra crescita in umanità, per quello che siamo e che diventiamo con il loro aiuto.

La spiritualità, che si fonda sulla diaconia di Cristo, venuto a servire e non ad essere servito, ci sollecita a rimanere in Cristo, lasciandoci plasmare dal Suo Spirito, attraverso:

  • l’ascolto orante della “Parola”;
  • la contemplazione della Sua Incarnazione e della Pasqua, assimilandone i sentimenti e gli atteggiamenti;
  • l’incontro con il povero, sacramento di Cristo; crescendo nella consapevolezza che ogni forma di povertà presenta un aspetto particolare della passione del Signore;
  • l’apertura al dialogo con uomini e donne di ogni ambente e cultura;

ci pone come “icona” Maria, la Serva del Signore che vive la sua missione in costante atteggiamento di servizio.

Il Papa Paolo VI, Il Card.E. Ruffini e un gruppo delle ASM, nell’Udienza del 04.01.1966

            La Chiamata può essere vissuta:

  • nella consacrazione al Signore, mediante i voti di povertà, castità, obbedienza e la promessa di Servizio Sociale Missionario e la vita fraterna in comune;
  • nell’adesione all’Associazione di Servizio Sociale Missionario con impegni secondo lo stato di vita di ciascuno (laicale, diaconale, presbiterale);
  • nell’adesione a “Testimoni di speranza nella sofferenza”: persone che vivono la propria sofferenza in comunione con Cristo, secondo il carisma del SSM.

Oggi siamo un piccolo gruppo presenti in Italia, Spagna, Argentina.

Fare memoria delle radici fondazionali e dell’esortazione del Papa Paolo VI ci è motivo di gioia e gratitudine e, nello stesso tempo, ci invita a verificare, nell’oggi, la nostra risposta al dono ricevuto e a discernere ciò che lo Spirito ci dice nelle concrete circostanze che viviamo. In prospettiva di futuro, ci sollecita a partecipare in comunione con altri, come lievito nella massa, nell’individuare, con il dono specifico ricevuto, nuove possibili risposte alle sfide odierne.

M. Aurelia Macaluso asm

Il Monastero Sacro Cuore di Erice

LA NOSTRA STORIA

Il Monastero Sacro Cuore nasce ad Alcamo (TP) il 24 giugno 1914 come fondazione del Protomonastero S. Chiara di Assisi, grazie a sr. Carmela Cherubina Paglicci Reattelli, sr. Chiara Giuseppa Corsini e sr. Maria Cherubina Bonifazi, donne dal cuore fecondo e aperte al soffio dello Spirito. Le Madri venute da Assisi trovarono in sito una piccola comunità religiosa senza però alcuna appartenenza ad un Ordine o Istituto, che prestissimo si arricchì di numerose vocazioni. Nonostante le inevitabili fatiche degli inizi, molte sono state le consolazioni di Dio per questo piccolo gregge voluto dalla Sua infinita misericordia. Dopo le vicende della I Guerra Mondiale, il monastero fu canonicamente eretto il 21 ottobre 1922 ed il 13 novembre dello stesso anno fu celebrato il primo Capitolo elettivo.  Tre giorni dopo, il 16 novembre, il nuovo Monastero fu inaugurato con il titolo di “S. Chiara del Sacro Cuore”. Con immensa riconoscenza possiamo ben dire che il «santo coraggio» lasciatoci in eredità da Madre Carmela Cherubina Paglicci Reattelli, sr. Chiara Giuseppa Corsini e sr. Maria Cherubina Bonifazi, incentivato dal desiderio e dall’urgenza di spandere il ‘seme clariano’ sino alle periferie della società di quel tempo, trova ancora vita e compimento nell’Oggi della nostra comunità. Infatti, un lungo e sofferto discernimento nato da alcune importanti problematiche strutturali e architettoniche del monastero, ci ha spinte alla ricerca di una struttura più adeguata alla nostra vita clariana facendoci salire “la montagna del Signore”, così come viene definita Erice (TP). Lo scorso 29 Ottobre 2020 abbiamo inaugurato la nostra presenza nel cinquecentesco convento donatoci dai Frati Minori Cappuccini di Palermo, con un piccolo gruppo di sorelle, dopo aver restaurato, grazie alla Divina Provvidenza, due piani della nostra nuova sede. Dopo il restauro di altri ambienti del pian terreno e ancora in attesa di un finanziamento pubblico che ci permetterà di completare i lavori, il 2 agosto 2021 l’intera comunità si ritrova finalmente riunita a Erice. Con gioia desideriamo innalzare il nostro grazie a Dio Padre delle misericordie per gli immensi benefici di cui ci ha colmate!

IL NOSTRO LAVORO

Vivendo il lavoro come grazia, la fatica quotidiana ci unisce in comunione con l’umanità che per vivere deve mantenersi.  E il lavoro, svolto per “l’utilità comune”, viene vissuto come luogo in cui si incarna il sacrificio della lode tanto gradito a Dio. Il nostro lavoro, dunque, che ci impegniamo a svolgere “con fedeltà e devozione”, come leggiamo nel cap. VII della nostra Regola, oltre alle quotidiane faccende domestiche, consiste nella realizzazione di preziosi ricami liturgici in oro e seta, nel restauro dei paramenti antichi, nella decorazione di ceri pasquali e candele, nella produzione di un vasto settore della legatoria con la creazione di copribreviari, coprimessali, coprilezionari, album fotografici e quaderni con coperte in cuoio, pelle, tela e carta decorativa.

ACCOGLIENZA

Nel cuore del terreno adiacente al monastero, nel nostro piccolo Eremo San Francesco, restaurato grazie alla solidarietà di alcuni fratelli e sorelle, diamo la possibilità di accoglienza autogestita per momenti di ritiro (personale o di gruppi), di riposo e di condivisione della preghiera liturgica della Comunità. Per chi lo desidera, la Chiesa del Monastero è aperta sia al mattino che al pomeriggio per la preghiera personale e, previo appuntamento, si può avere la possibilità di un incontro con le sorelle della comunità. Negli orari di ricevimento si può suonare alla nostra portineria o telefonare, per affidare le proprie intenzioni di preghiera alla comunità o scriverci per email.

LA VITA NEL MONASTERO

Il carisma delle sorelle povere di S. Chiara ha mosso i suoi primi passi nel 1211, anno in cui Chiara, nobile donna della città di Assisi, lasciò gli agi della casa paterna per seguire Cristo Povero e crocifisso. La novità evangelica della vita di Chiara e delle sue prime compagne consiste nel mettere insieme, in una sintesi armonica e creativa allo stesso tempo, la vita monastica tradizionale e la spiritualità di minorità e di povertà loro donata dal Poverello d’Assisi. Esse, cogliendo in pienezza il nesso operato da Francesco tra povertà evangelica e nozze con Cristo, scelgono di vivere una vita integralmente contemplativa tra le mura di un angusto luogo, così come fu definito il Monastero di S. Damiano. La povertà abbracciata da Chiara e dalle sue sorelle, oltre che ad essere una povertà materiale e spirituale è quindi anche una povertà di spazio, che trova forma ed espressione nella vita claustrale. L’avventura di Chiara e delle prime compagne non ha inizio da una regola ben definita: la loro forma vitae assume una fisionomia propria nei solchi della quotidianità. Tratto caratteristico della spiritualità delle sorelle povere è il tenere insieme, come in un mosaico dai variopinti tasselli, una vita di preghiera, di contemplazione e di lavoro, di silenzio e di fraternità. L’amore con cui Chiara ama il Cristo Suo Signore prende corpo in un’esistenza vissuta nel silenzio orante, nella continua lode a Dio, nell’intercessione costante per le deboli membra del Suo mistico corpo e nella cura attenta e materna verso ogni sorella. L’odierno documento Vultum Dei Quarere di Papa Francesco, così si rivolge a noi monache: “Siate fari, per i vicini e soprattutto per i lontani (…) Con la vostra vita trasfigurata e con parole semplici, ruminate nel silenzio, indicateci Colui che è via, verità e vita, l’unico Signore che offre pienezza alla nostra esistenza e dona vita in abbondanza”.

Eremo Francescano Santa Maria Maddalena

L’esperienza degli eremiti, che è all’origine del monachesimo, ancora oggi è presente nella Chiesa e ve ne sono vari esempi. Ci accostiamo a questa realtà e cominciamo a conoscerla, tramite la testimonianza di fr. Cristiano di Gesù, che vive da eremita nell’Eremo Francescano Santa Maria Maddalena. L’eremo si trova ad Adelano di Zeri (MS), a circa 25 km da Pontremoli. Continua a leggere

Nomaldefia

“Nomadelfia” dal greco significa: “legge della fraternità”.

Su questa legge don Zeno Saltini (1900 – 1981) ha fondato un nuovo popolo: Nomadelfia.

Don Zeno, padre e fondatore di Nomadelfia

Zeno Saltini nasce a Fossoli di Carpi (Modena) il 30 Agosto 1900 in una famiglia patriarcale benestante.
È il nono tra i dodici figli di Cesare e Filomena.
Nel 1914 rifiuta la scuola e va a lavorare in campagna con gli operai del nonno, Giuseppe Saltini.
Soldato di leva a Firenze, nel 1920, ha una violenta discussione con un amico anarchico, il quale sostiene che Cristo e la Chiesa sono di ostacolo al progresso umano. Lui sostiene il contrario, pur riconoscendo che i cristiani sono in gran parte incoerenti. Ma l’anarchico è istruito e vince lo scontro verbale. Zeno decide: “Gli risponderò con la mia vita. Cambio civiltà cominciando da me stesso. Non voglio più essere né padrone né servo “. Riprende gli studi.
Nel dicembre 1929 si laurea in legge all’Università Cattolica di Milano.
Nel 1931, dopo un solo anno di seminario, celebra la Prima Messa nel duomo di Carpi e si fa padre di un ragazzo appena uscito dal carcere, Danilo “Barile”, il primo di 5000 figli.
Nel 1941 Irene, una ragazza di 18 anni, scappa di casa per farsi mamma di questi bambini. È la prima mamma di vocazione. In seguito, altre giovani donne la seguiranno.
Anche diversi sacerdoti si uniscono a don Zeno.
Dopo l’8 settembre 1943 don Zeno, che già prima era stato arrestato e denunciato al Tribunale militare, riesce ad attraversare il fronte e a raggiungere la zona libera al Sud.
Molti dei giovani Piccoli Apostoli partecipano alla Resistenza e sette perdono la vita. Tra loro anche un sacerdote, mentre altri tre sacerdoti vengono imprigionati e rischiano la fucilazione per l’aiuto dato agli Ebrei.
Nel 1947 i Piccoli Apostoli, sparsi in varie località del modenese, occupano l’ex campo di concentramento di Fossoli che trasformano nella città “dove la fraternità è legge”: Nomadelfia.
Si formano le prime famiglie di sposi, disposti anch’essi ad accogliere come figli i fanciulli in stato di abbandono.
Nel febbraio 1948 i Nomadelfi approvano e sottoscrivono sull’altare la loro Costituzione. Poco dopo 120 bambini del brefotrofio di Roma vengono accolti a Nomadelfia.
Nel 1950 don Zeno propone al popolo una nuova politica con il “Movimento della Fraternità Umana”, ma questo impegno gli fa crescere attorno ostilità e contrasti.
Il 5 febbraio 1952, con un decreto del S. Ufficio, don Zeno viene allontanato e la Comunità è sciolta.
Alla fine del 1953 chiede ed ottiene pro-gratia la riduzione allo stato laicale per poter continuare a vivere come padre del suo popolo.
Nel 1962 don Zeno riprende l’esercizio del sacerdozio e Nomadelfia viene eretta a parrocchia.
Gli ultimi anni sono anni sempre permeati dall’ansia di andare al popolo per proporre una strada diversa. Nascono iniziative come le Serate, la Nomade, la Carovana, il teatro-tenda.
Il 12 agosto 1980 don Zeno con i figli di Nomadelfia offre una Serata di danze al Papa Giovanni Paolo II a Castel Gandolfo e, pochi mesi dopo quell’abbraccio, muore a Nomadelfia il 15 gennaio 1981.
Dopo la morte del fondatore, Nomadelfia ha continuato sulla strada che don Zeno ha tracciato. E domenica 21 maggio 1989 Papa Giovanni Paolo II è a Nomadelfia. Tra l’altro in quella occasione dice: “Siete una parrocchia che si ispira al modello descritto dagli Atti degli Apostoli… Una società che prepara le sue leggi ispirandosi agli ideali predicati da Cristo. Vi chiedo di amare la Chiesa, poiché anch’essa vi ama ed apprezza la vostra esperienza”.
I nomadelfi hanno portato a termine negli anni ’90 il lavoro di fusione delle costituzioni e la costituzione è stata definitivamente approvata dalla S. Sede il 18 giugno 2000. Era l’anno centenario della nascita di don Zeno.
Il 10 maggio 2018 anche papa Francesco è venuto a Nomadelfia e l’ha definita “una realtà profetica che si propone di realizzare una nuova civiltà, attuando il Vangelo come forma di vita buona e bella”.

Nomadelfia un piccolo popolo comunitario

È una popolazione di 300 persone, 50 famiglie, che attualmente hanno costituito un piccolo paese su un territorio di 4 Km2 in Toscana vicino a Grosseto. È un popolo diverso, “nuovo”, perché formato da persone volontarie: cattolici che vivono insieme con lo scopo di costruire una nuova civiltà fondata sul Vangelo.
Per la Chiesa è una “associazione privata” e una parrocchia comunitaria.
Per lo Stato è un’associazione civile.
Nomadelfia è un piccolo popolo comunitario, più che una comunità. Ha una sua storia, una sua cultura, una sua legge, un suo linguaggio, un suo costume di vita, una sua tradizione. È una popolazione con tutte le componenti: uomini, donne, sacerdoti, famiglie, figli.
È un popolo fondato sulla libertà. Nomadelfi non si nasce, si diventa per libera scelta. Coloro che desiderano diventare nomadelfi, compresi gli stessi figli, devono chiedere di essere ammessi ad un periodo di prova della durata di tre anni. Al termine, se accettati, firmano la Costituzione sull’altare davanti a tutto il popolo.
Chi si fa nomadelfo si impegna per tutta la vita. Tuttavia è libero di ritirarsi in qualsiasi momento.
È un popolo fondato sulla comunione fraterna dei beni. Tutti i beni sono in comune.
Le risorse economiche provengono dal lavoro, dai contributi assistenziali per i figli accolti, e dalla Provvidenza, specialmente attraverso le attività di apostolato: stampa, Serate, incontri.

È un popolo fondato sulla generosità.

I nomadelfi accettano una vita per gli altri, obbedienti alle disposizioni degli organi competenti e disponibili a qualsiasi iniziativa, lavoro, spostamento.

È un popolo fondato sulla fede.

La comunità, la libertà, la generosità trovano la loro sorgente nella fede. I nomadelfi sono cattolici praticanti e la Chiesa li ha costituiti in parrocchia nel 1962.

È un popolo con una Costituzione.

Per lo Stato italiano Nomadelfia è un’associazione civile, organizzata sotto forma di cooperativa di lavoro.
Internamente vige una Costituzione che nei valori si ispira al Vangelo e nell’organizzazione si richiama ai principi degli Stati di diritto.
È una democrazia diretta, nella quale tutti i membri effettivi partecipano in Assemblea all’approvazione delle leggi, prendono le decisioni più importanti, rinnovano le cariche costituzionali.
Il potere esecutivo è esercitato dalla Presidenza, che organizza la vita quotidiana, compone i gruppi familiari, accoglie e affida figli alle famiglie, ammette nuovi postulanti, assegna il lavoro alle singole persone. Il Consiglio Amministrativo cura l’amministrazione.
Il Consiglio degli Anziani elegge e controlla l’Economato, e arbitra in caso di mancata unanimità dell’Assemblea.
Il Collegio dei Giudici interviene nei casi di contrasto e di incoerenza. Chi sbaglia è perdonato purché si penta.
Il Successore del fondatore è un sacerdote. Garantisce che la vita si svolga in armonia con lo spirito del fondatore, del Vangelo e della Costituzione.

Una famiglia di famiglie: i gruppi familiari

Le famiglie sono aperte all’accoglienza di figli in affido e vivono assieme ad altre quattro o cinque nel “gruppo familiare”. Il gruppo familiare è la realtà fondamentale di Nomadelfia, è una soluzione perché una famiglia è di sostegno all’altra, specialmente nell’attenzione alle persone più deboli: i bambini e gli anziani. Oltre alle famiglie di coniugi ci sono le famiglie di mamme di vocazione, donne che abbracciano la verginità per donare la maternità a figli che ne hanno bisogno.
I figli accolti sono consegnati all’altare alle mamme di vocazione e agli sposi con le parole che Gesù ha rivolto dalla croce alla Madonna e a Giovanni: “Donna, ecco tuo figlio. Figlio, ecco tua madre”.
Uno dei principi fondamentali è la condivisione educativa: uomini e donne sono tenuti ad esercitare la paternità e la maternità su tutti i figli, anche su quelli che non appartengono alla loro famiglia. Devono quindi trattarli alla pari e intervenire nell’educazione di tutti secondo una linea pedagogica comune, ispirata al Vangelo.
Una volta raggiunta la maggiore età, i figli sono liberi di rimanere oppure di uscire dalla comunità. In questo caso vengono aiutati a sistemarsi.
In Nomadelfia non esiste proprietà privata, ma nella fraternità tutti i beni sono in comune secondo la preghiera di Gesù all’Ultima Cena: “Padre, tutto quello che è mio è tuo, tutto quello che è tuo è mio, così siano essi…”.

Lavoro: un atto d’amore

Un lavoro senza padroni e senza dipendenti.
Nel lavoro è nata una soluzione sociale che supera il dualismo “padrone e operaio” ed anche le più avanzate esperienze di compartecipazione e di cooperativismo: la fraternità. I Nomadelfi lavorano nei laboratori, negli uffici, nelle scuole della comunità.
Un lavoro senza sfruttamento: tutti sono corresponsabili.
Le attività di lavoro vengono gestite fraternamente e non è ammessa nessuna forma di sfruttamento dell’uomo sull’uomo.
La presidenza nomina per ogni attività un responsabile, che dovrà gestirla in armonia con le altre attività della popolazione.
Per ogni lavoro è importante la disponibilità.
Non c’è carriera e tutti sono disponibili a qualsiasi tipo di lavoro al quale sono indirizzati dalla presidenza, che, logicamente, tiene conto sia delle esigenze delle comunità sia delle capacità personali.
A particolari lavori, come ad esempio la guardia notturna, la stalla nei giorni festivi, il servizio di autobus interno o l’accompagnamento delle comitive di visitatori, partecipano a turno tutte le persone idonee.
Nessuno è pagato. Anzi, non c’è alcuna forma di proprietà privata, ma solo l’uso dei beni. In Nomadelfia non esiste il disoccupato; diversamente abili e anziani continuano a lavorare in proporzione alle loro possibilità. Nessuno perciò si sente inutile.
Per risolvere il problema dei lavori stagionali (come la potatura, la vendemmia, la raccolta delle olive), pesanti (come lo spietramento dei campi, la manutenzione delle strade), e ripetitivi si organizzano “lavori di massa” ai quali tutta la popolazione partecipa.
Con attrezzature meccaniche e con lavori di massa si è costruita una diga con un laghetto artificiale di 300.000 m3 e una rete di irrigazione.
Orari di lavoro: durante i giorni feriali, compreso il sabato, i nomadelfi lavorano al mattino per 5 ore nelle aziende, nei laboratori, nelle scuole, negli uffici. Al pomeriggio il lavoro specializzato può essere sostituito da “lavori di massa”.

Cultura vivente

La cultura di Nomadelfia deriva da un patrimonio di fede, di conoscenze e di esperienze, che spingono all’amore per il prossimo e alla costruzione di una società nuova.
Per don Zeno, però, possedere una cultura non significa soltanto “conoscere”, ma vivere ciò che si conosce: è il concetto di “cultura vivente”, un impegno alla coerenza.
Ogni giorno, dopo il lavoro, i Nomadelfi si radunano in una sala comune per un’ora di studio e di riflessione. Per approfondire la propria missione si riascoltano specialmente i discorsi di don Zeno, ai quali seguono riflessioni comunitarie. A volte si studiano i problemi della società attraverso documentari o relazioni di qualche nomadelfo preparato sull’argomento, o partecipando a conferenze di personalità esterne.
È una forma di educazione permanente alla quale partecipano spesso anche i figli.
Questo impegno quotidiano è completato ogni anno da un corso di esercizi spirituali di dieci giorni, per mettere a fuoco gli aspetti fondamentali di Nomadelfia e per rivedere la propria vita.

La scuola familiare

La scuola di Nomadelfia è “familiare”. È nata nel 1968, quando i genitori hanno ottenuto dal Ministero della Pubblica Istruzione di potere istruire i figli sotto la propria responsabilità, con l’obbligo di presentare i figli come privatisti agli esami di Stato di quinta elementare e terza media.

Scuola “vivente”.
È “vivente” perché ogni momento della vita è scuola in quanto l’ambiente familiare, sociale e naturale nel quale i ragazzi vivono è di per sé educativo. I gruppi di scuola si chiamano “cicli” e sono generalmente omogenei per età, interessi ed esperienze.
Non esistono voti e non ci sono né promozioni né bocciature. I programmi sono sviluppati secondo le linee pedagogiche di Nomadelfia.
La frequenza scolastica è obbligatoria fino a 18 anni. Se poi lo desiderano, i figli si presentano presso le scuole pubbliche per sostenere gli esami di maturità.

Scuola di popolo.
Ogni ciclo è affidato a uno o due “coordinatori”. Nelle superiori collaborano altri adulti e anche insegnanti esterni per materie specifiche.
Numerose sono le visite a città e paesi, per studiare la vita dei vari popoli. Gli scritti e i disegni, nati dalle riflessioni e dalle osservazioni dei ragazzi, vengono raccolti in libri sui quali si rivivono le esperienze fatte. Tutto questo materiale viene presentato agli esami di Stato, destando vivo interesse.
Notevole importanza riveste la scuola di danza che prepara bambini e giovani alle “Serate di Nomadelfia”.

Nomadelfia è una proposta

Nomadelfia non vive per se stessa, ma per gli altri. È aperta verso la società, poiché di essa si interessa concretamente prendendosi cura in particolare dei minori abbandonati, e creando diverse iniziative di apostolato per diffondere il suo messaggio di fraternità, rivolto a tutti, credenti e non credenti.

Una proposta per i visitatori.
Nomadelfia è aperta a tutti ed ospita ogni anno, in periodi non di emergenza Covid, circa 10.000 visitatori che vengono accompagnati da nomadelfi messi a loro disposizione per illustrarne struttura e finalità. Alcuni chiedono di rimanere per qualche giorno e vengono ospitati nei gruppi familiari, partecipando alla vita quotidiana della comunità.

Una proposta con gli incontri.
Numerose sono le richieste di incontri nelle scuole, nelle parrocchie, presso associazioni in tutta Italia, che desiderano conoscere l’esperienza di Nomadelfia.

Una proposta con le “Serate”.
Don Zeno si è fatto promotore di varie iniziative in favore del popolo.
L’iniziativa che da più di 30 anni impegna la maggior parte dei nomadelfi è denominata “Serate di Nomadelfia”, che ha superato le 1000 repliche.
Le Serate sono incontri con le popolazioni per conoscerle e farsi conoscere. Con questi spettacoli i nomadelfi portano il Vangelo sulle piazze, non come singoli, bensì come popolo che dà una testimonianza della propria vita. Assieme a un momento di riflessione sulla proposta di Nomadelfia attraverso un documentario e un discorso sul tema “Il Vangelo è codice del vivere”, si offrono due ore di gioia con danze e figurazioni acrobatiche eseguite dai bambini e dai giovani.

La Congregazione delle Suore Collegine della S. Famiglia

NEL CUORE DELLA SOCIETÀ COL CUORE DI DIO

La Congregazione delle Suore Collegine della S. Famiglia viene fondata a Sezze nel Lazio l’11 giugno del 1717 con l’approvazione del breve Ad Apostolicae dignitatis da parte di papa Clemente XI, perché il compassionevole cuore del Servo di Dio, il Card. Pietro Marcellino Corradini (1658-1743), la cui veste cardinalizia è intrisa di carità, legge il bisogno – urgenza di educare le figlie del popolo nelle arti femminili, nel far di conto e nella formazione cristiana… al fine di rinnovare e riedificare la società a partire dal modello di famiglia umana e cristiana, il cui fulcro è la donna, con la sua dignità, la sua formazione umana, culturale, morale e spirituale.

Il Corradini affida quest’opera d’arte alle Convittrici della S. Famiglia, oggi Suore collegine, perché, implicate dal basso, assumendo il profilo di consacrate madri, maestre e sorelle, diventassero per le figlie del popolo custodi del gran tesoro che sono le persone.

La fisionomia stabilita per il nuovo Istituto vuole che le religiose uniscano la dimensione spirituale contemplativa del modello monastico a quella pastorale di vita attiva degli Istituti di vita attiva per giungere così ad una felice sintesi di azione e contemplazione, vita attiva e contemplativa. Tale modello, voluto fortemente dal Corradini, comporta la non adozione della clausura, dal momento che l’impegno a favore della popolazione femminile richiede il servizio anche fuori del monastero.

Presto la fama dell’opera del Corradini si diffonde oltre il Lazio: infatti, Don Stefano Compagnone, secondo Confessore del Conservatorio setino, casa madre della Congregazione delle Suore Collegine, tornato in Sicilia, insieme a don Carlo Loi e Vasquez e mons. Carlo Vanni, anch’essi attenti alla formazione delle giovani palermitane, fa conoscere all’allora Arcivescovo di Palermo Mons. Giuseppe Gasch la bontà dell’opera corradiniana sì da ottenere il via per la fondazione della prima casa collegina a Palermo nel quartiere Olivella; correva l’anno 1721.

La Congregazione si diffonde in poco tempo a macchia d’olio nei vari centri dell’isola e le sue case da subito vengono chiamate “Collegi di Maria”. Quest’ultimi attraverseranno tutte le vicissitudini di un sud che ha sofferto, ma anche lottato, per la sua identità e per il riscatto dalla sua marginalità rispetto ad uno Stato sentito lontano ed estraneo. La storia dei Collegi di Maria vive dunque le alterne vicende storiche, sociali, morali e spirituali dell’Italia post-unitaria, e non solo, a fianco della gente, istruendo, educando e testimoniando l’attenzione ai piccoli, che sono i prediletti del Signore.

Le Collegine pertanto, nel corso di tre secoli, entrano a pieno titolo nei processi formativi avendo preceduto quello che sarà, rispetto alla sua fondazione, un provvedimento successivo dello Stato: istituire cioè la scuola pubblica. Le consacrate, gravide del carisma educativo, che portano dentro al loro DNA e che esprimono nella missione educativa e di evangelizzazione, (consapevoli o no, nel piano misterioso di Dio tutto è grazia, anche l’inconsapevolezza del bene), possono dunque penetrare nei tessuti formativi a buon titolo e facendo “la parte migliore”. Le ragazze del popolo, ma anche tutte le altre, dono della Provvidenza alla loro missione, sono fatte oggetto e destinatarie di una formazione globale, progressiva … ne sono testimoni le pennellate ispirative e pedagogiche, che si evincono dal primo testo delle Costituzioni.

In trecento anni di storia, la Congregazione è stata in frontiera a difendere e promuovere il diritto dei bambini ad essere riconosciuti nella propria dignità e a potere godere del diritto alla cura, alla custodia, allo studio, all’autonomia… in Italia come all’estero.

Il carisma della Congregazione è la carità educativa di Gesù Maestro, che si esprime in primis nella missione della Scuola e dell’evangelizzazione. Le icone bibliche che lo ispirano sono quelle di Gesù che accoglie i bambini secondo l’adagio evangelico: “Lasciate che i bambini vengano a me!”(Mc 10,14) e la compassione che Gesù prova davanti alle folle che lo seguono da giorni (Mc 6,34 ss.); compassione che si fa pane e parola, evangelizzazione e nutrimento. Mai, infatti, per le suore collegine è venuto meno il binomio promuovere – educare, consapevoli che prima viene la dignità della persona, riconosciuta in tutte le sue dimensioni, e poi la formazione. Ancora oggi, in Italia come nelle missioni in terra d’Europa, d’Africa e Messico, le suore collegine animano scuole di ogni ordine e grado, orfanotrofi e case famiglia, e curano la formazione dei giovani e la catechesi.

La passione educativa, sollecitata dall’urgenza del “prendersi cura” delle giovani generazioni col cuore stesso di Dio, pone le suore collegine in frontiera, lì dove, la fame della dignità, della conoscenza, della giustizia e della libertà, le sfida alla continua necessità di “educare educandosi ed evangelizzare evangelizzandosi”.

Suor Paolina Mastrandrea

Suora collegina della s. Famiglia

 

 

La Congregazione Benedettina Silvestrina

Con la presentazione della Congregazione Benedettina Silvestrina ha inizio il progetto, presentato al CNIS svoltosi a Torino lo scorso ottobre, finalizzato a fare conoscere la ricchezza della spiritualità della vita consacrata, nella radicalità di un incontro d’amore con il Signore. Papa Benedetto XVI ha definito i consacrati sentinelle di luce all’interno del popolo di Dio, che scorgono e annunciano la vita nuova  già presente nella nostra storia. Invitiamo pertanto i Serra Club a voler dare voce agli Istituti Religiosi presenti nei propri territori condividendone, attraverso il portale, la storia, la specificità del carisma, la missione ed anche qualche dato statistico circa la loro diffusione.

Attendiamo il contributo di tutti!!!

***

La Congregazione Benedettina Silvestrina, in origine denominata Ordine di San Benedetto di Montefano, è sorta a Fabriano nelle Marche nel secolo XIII a opera di San Silvestro abate, la cui memoria liturgica si celebra il 26 novembre (il 31 dicembre si festeggia San Silvestro papa). Attualmente opera in cinque continenti.

Fondatore

Silvestro nacque a Osimo, una città a metà strada tra Ancona e Loreto, nel 1177. Secondo la tradizione apparteneva alla nobile famiglia dei Guzzolini.

Ancora adolescente Silvestro fu inviato dal padre Gislerio a Bologna per addottorarsi in legge. Dopo breve tempo, però, sentendo la chiamata del Signore, all’insaputa del genitore si applicò allo studio della teologia e della sacra scrittura. Ritornato a Osimo, dovette superare l’ostilità del padre –  che per dieci anni non gli rivolse la parola – prima di poter abbracciare lo stato ecclesiastico e di essere assunto tra i canonici della cattedrale di Osimo.

Ben presto, tuttavia, Silvestro ebbe dei contrasti con il proprio vescovo, che teneva un comportamento non del tutto esemplare e cercava ogni pretesto per privarlo del beneficio canonicale.

Un giorno Silvestro rimase particolarmente colpito dal passo evangelico: «Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua» (Matteo 16,24) e comprese che tali parole erano dette proprio per lui.

Silvestro rimase anche turbato davanti al sepolcro aperto di un giovane parente da poco defunto, già di bellissimo aspetto e ora in decomposizione, e pensò: «Quello che lui era, io lo sono; quello che lui è, io lo sarò». E presa coscienza della vanità del mondo, nel 1227 lasciò il canonicato e la città natale, ritirandosi a vita solitaria fra i dirupi della gola della Rossa nel territorio di Serra San Quirico in una grotta denominata Grottafucile, dove condusse vita di aspra penitenza e di assidua preghiera, cibandosi spesso soltanto di erbe crude.

A Grottafucile Silvestro accolse i primi discepoli e costituì una comunità monastica sotto la Regola di San Benedetto. Intitolò il suo primo monastero alla Vergine Maria.

Nel 1231 Silvestro fondò un secondo monastero presso Fabriano, in prossimità della cima di Monte Fano, dedicandolo a San Benedetto. Questo cenobio fu scelto dal fondatore come Casa Madre della sua famiglia monastica, che ottenne l’approvazione canonica da Innocenzo IV nel 1248 con la denominazione di «Ordine di San Benedetto di Montefano».

Alla morte, avvenuta il 26 novembre 1267, Silvestro lasciava 12 monasteri e 120  monaci. Le sacre spoglie di Silvestro furono riposte nella chiesa di Montefano, dove tuttora sono conservate in un’urna di bronzo e cristallo.

Subito dopo la morte Silvestro godette di culto a livello popolare, ma il riconoscimento ufficiale della sua santità avvenne dopo più di tre secoli. Fu nel 1598 che, per espressa volontà di Clemente VIII,  il nome di Silvestro venne inserito nel martirologio romano al 26 novembre, dies natalis del Santo, cioè giorno della sua nascita al cielo, alla vera vita, a cui tutti siamo chiamati e verso cui tendiamo: l’incontro definitivo con il Signore.

Con la bolla Sanctorum virorum del 23 settembre 1617 Paolo V riconobbe ufficialmente la santità di Silvestro Guzzolini, fondatore della Congregazione dei monaci silvestrini, insigne per virtù e miracoli, arricchito da Dio di grandi doni spirituali e in particolare favorito del privilegio di ricevere la comunione dalle mani della Beata Vergine.

L’importante riconoscimento segnò il passaggio del titolo del monastero di Montefano da «San Benedetto» a «San Silvestro» e dell’Ordine da «Ordine di San Benedetto di Montefano» a «Congregazione Silvestrina».

Nel 1890 Leone XIII inserì il nome di San Silvestro nel calendario universale della Chiesa.

San Silvestro è compatrono della città di Fabriano insieme con San Romualdo, fondatore dei monaci camaldolesi.

Storia

Dopo la morte del fondatore la Congregazione Silvestrina si sviluppò soprattutto nell’Italia centrale con molti monasteri, non più fondati in luoghi solitari come al tempo di Silvestro, ma prevalentemente in aree urbane o suburbane.

Sotto il governo dei priori generali Bartolo da Cingoli (1273-1298) e Andrea di Giacomo da Fabriano (1298-1325) vennero fondati dodici monasteri e furono acquisite due parrocchie (San Marco di Firenze e San Benedetto di Fabriano).

Con il successore di Andrea di Giacomo ebbe inizio la serie dei tredici priori generali commendatari nominati direttamente dai papi. Sotto il regime commendatario la Congregazione Silvestrina conobbe un lungo periodo di stasi e di contenimento, imputabile anche all’instabilità politica dello Stato Pontificio, alle pestilenze (terribile la peste nera del 1348), alle ricorrenti carestie e ai terremoti.

Nel 1544 Paolo III abolì la commenda nella Congregazione Silvestrina e ridusse a tre anni la durata del mandato del priore generale, fino allora a vita.

La ripresa della Congregazione Silvestrina ebbe inizio durante il concilio di Trento (1545-1563) con la visita apostolica del gesuita Nicolò Bobadilla (1555-1556), uno dei primi compagni di sant’Ignazio di Loyola, e proseguì per tutto il Cinquecento.

Dal 1565 fino ai primi anni del Seicento la Congregazione Silvestrina ebbe stretti rapporti con il monachesimo portoghese e brasiliano. I contatti sono confermati anche dalla presenza nel coro della chiesa del monastero di San Benedetto a Rio de Janeiro di una tela della seconda metà del Seicento raffigurante San Silvestro che riceve la comunione dalle mani della Vergine Maria.

Nel 1610 il titolo di «priore generale» fu sostituito con quello di «abate generale», la cui sede nel 1925 venne trasferita a Roma (in precedenza era a Fabriano). Il mandato dell’abate generale fu prolungato a quattro anni nel 1683 e a sei nel 1764, come è al presente.

Nella prima metà del Seicento la Congregazione Silvestrina conobbe un forte incremento numerico e una notevole diffusione geografica, anche se limitata ai confini nazionali. Nel 1650 i monasteri silvestrini erano 29 e i monaci 150.

La soppressione dei piccoli conventi (con meno di 6 religiosi), attuata dal papa Innocenzo X nel 1652, fu una vera bufera che si abbatté sulla Congregazione Silvestrina: vennero forzatamente chiusi ben quindici monasteri, i cui beni furono in gran parte incamerati dai vescovi diocesani per la costruzione dei seminari.

Nel Settecento non si ebbero nuove fondazioni fra i Silvestrini: all’inizio del secolo i monaci erano 145, distribuiti in 15 monasteri: dieci nelle Marche, due in Umbria, due nel Lazio e uno in Abruzzo (S. Antonio di Pescina, fondato nel 1660 dopo la soppressione innocenziana).

Valore episodico, anche se il fatto riveste notevole interesse per il monachesimo benedettino italiano che nel Settecento rimase estraneo al vasto fenomeno di evangelizzazione di continenti extraeuropei, ebbe l’iniziativa missionaria del silvestrino Giuseppe Marziali in Cocincina (oggi Vietnam meridionale) negli anni 1732-1740.

L’Ottocento è il secolo delle soppressioni (1810, 1861, 1866), ma per la Congregazione Silvestrina è anche l’inizio di un processo di espansione all’estero, che è proseguito fino ai nostri giorni: nel 1845 fu aperta una missione in Sri Lanka (il primo vescovo europeo di Colombo fu il silvestrino Giuseppe Bravi), cui seguirono le fondazioni negli Stati Uniti d’America (1910), in Australia (1949), in India (1962), nelle Filippine (1999) e, da ultimo, nella Repubblica Democratica del Congo (2006).

Attualmente i monasteri silvestrini sono 23 e i monaci 210.

La Congregazione Silvestrina fa parte della Confederazione Benedettina – istituita da papa Leone XIII nel 1893 – che comprende 19 Congregazioni monastiche.

Ora et labora

Il motto ora et labora ha da sempre delineato l’immagine del monaco e del monastero benedettino. La giornata del monaco è scandita dalla preghiera e dal lavoro.

La comunità monastica si riunisce a ore fisse durante il giorno, cominciando dal mattino presto, per i vari momenti della «Liturgia delle Ore» e per la celebrazione eucaristica. Ci sono poi i tempi della preghiera personale e della lettura orante della Parola di Dio (lectio divina). L’ufficio divino in coro (opus Dei) fa parte integrante della vita monastica, consacrata al culto di Dio.

La vita comune è concepita come vita di famiglia, nello spirito di Cristo, di cui l’abate/priore fa le veci, senza distinzione tra sacerdoti e fratelli, nella comunione dei beni.

Il monaco emette i voti di stabilità (stabilitas), di obbedienza (obedientia) e di conversione dei costumi (conversio morum), che comprende anche i voti di castità e povertà.

Sono aggregati spiritualmente alla comunità monastica gli oblati secolari, cioè singoli o coppie che ispirano il proprio cammino di fede ai valori della Regola di San Benedetto in un rapporto equilibrato tra tensione verso Dio e impegno nelle responsabilità quotidiane.

Gli oblati si incontrano periodicamente presso la comunità monastica cui sono associati, pregano con i monaci, ascoltano la Parola e tentano di coltivare con semplicità lo stile di vita spirituale che San Benedetto propone.

Il lavoro nella Congregazione Silvestrina ha avuto lungo i secoli molteplici espressioni, dovute sia al diverso rapporto con la società nelle varie epoche, sia all’ambiente in cui le comunità silvestrine operarono: dall’opus manuum (lavoro dei campi), prevalente nel secolo XIII, allo studio e all’insegnamento nei secoli successivi, dall’impegno nella trascrizione dei codici a quello dell’apostolato (cura d’anime – missioni), dall’inserimento nella vita civile ed ecclesiastica alla predicazione, dall’attività educativa a quella artistica e artigianale.

In particolare merita di essere segnalato il ruolo non irrilevante svolto dai monaci di Montefano – come studi recenti hanno ampiamente dimostrato – nelle vicende e nello sviluppo della lavorazione della carta, le cui origini a Fabriano si fanno risalire al secolo XIII. I silvestrini hanno posseduto opifici per la lavorazione della carta fino al 1725.

All’interno dei monasteri viene praticata anche l’ospitalità: nella foresteria sono accolte persone che desiderano condividere la preghiera e l’esperienza spirituale dei monaci.

Con la diffusione della Congregazione Silvestrina in Asia e in Africa, dove è concentrata la maggior parte dei suoi monasteri, il labora si concretizza soprattutto nell’attività educativa delle popolazioni locali, in massima parte non cattoliche. Migliaia sono i ragazzi, gli adolescenti e i giovani che vengono istruiti nelle scuole dirette dai monaci, frequentate soprattutto da alunni di religione induista, buddista e musulmana. Gli alunni si abituano così a praticare la tolleranza, il rispetto reciproco, la convivenza pacifica e collaborativa, che lasciano ben sperare per il futuro di quelle popolazioni.

Tolleranza, rispetto e pacifica convivenza sono i valori contenuti nella Regola consegnata da San Benedetto alle sue comunità, che il San Silvestro ha fatto propri e che i suoi monaci continuano a trasmettere per creare una società più coesa, nel rispetto delle diverse opinioni politiche, abitudini culturali e credenze religiose.